In un angolo remoto del Giappone, sospeso tra favola e mito, l’anziana O Rin si sta preparando per il pellegrinaggio sulla Montagna di Narayama. La sua anima salda non teme il viaggio né la sorte che l’attende. Ha condotto una vita operosa e onesta, ha molto amato, ha molto vissuto: è ora di partire. O Rin è pronta: ha trovato una moglie per il figlio vedovo, ha accolto la giovane moglie del primo nipote, incinta di un bambino, c’è cibo in abbondanza perché tutti possano affrontare i rigori dell’inverno: può dunque lasciare il villaggio, la casa, ed andare. La meta è Narayama, la montagna leggendaria verso cui ci si incammina, compiuti i settant’anni, per non tornare più. Si va per fare spazio a chi arriva, per compiere il proprio destino; ma non c’è nulla di strano, o di immorale nell’andare: è la legge della natura, come sanno le specie animali con infallibile istinto. E’ la vita, scandita da ballate che nascondono e al contempo rivelano il senso profondo dell’essere. Dalle castagne cadute germogliano i fiori O Tori -Yan, della casa del Sale ha una sorte buona Il giorno che va sulla montagna cade la neve Fukazawa[1], l’autore di questo romanzo straordinario, ci lascia per un attimo sgomenti, in preda al senso di orrore che ci pervade pensando al viaggio di O Rin verso la sua morte; eppure poco a poco con maestria e delicatezza, ci sospinge su di un piano parallelo, dove la meta – finale- è relativa se non irrilevante; il senso è il viaggio. E noi che leggiamo siamo occhi aperti nel buio: a poco a poco scorgiamo ombre, distinguiamo forme e ci orientiamo. [2] O Rin sarà accompagnata in cima alla montagna dal figlio Tappei, che se la caricherà sulle spalle e a piedi la condurrà in cima alla montagna (come Abramo che porta sulla schiena il figlio Isacco in cima al monte Moriah per sacrificarlo al suo Dio) Ma torniamo ad O-Rin. Una sera ella riconosce nella natura i segni di una nevicata imminente e comunica a Tappei che l’indomani salirà a Narayama. Quella sera stessa offrirà, come la tradizione vuole, un banchetto a base di sake e riso invitando coloro i quali avevano già accompagnato qualcuno alla montagna. Costoro consegneranno solennemente le Regole del pellegrinaggio secondo un preciso cerimoniale presieduto da colui che, tra i presenti, è salito per primo alla montagna e dunque berrà per primo il sake. “ Il pellegrinaggio alla montagna è penoso. Vi siamo grati per quello che soffrirete. (…) Siamo certi che vi atterrete, senza meno, alle regole del pellegrinaggio della montagna. Una di queste è: quando andrete sulla montagna, non parlare.” Altro giro di sake, parla il secondo ospite. “Siamo certi che vi atterrete, senza meno, alle regole del pellegrinaggio della montagna. Una di queste è: quando uscite di casa, fate in modo che nessuno vi veda” Terza regola. “Siamo certi che vi atterrete, senza meno, alle regole del pellegrinaggio della montagna. Una di queste è: Quando verrà l’ora del ritorno dalla montagna, in nessun caso voltarsi indietro” Terminato il cerimoniale gli ospiti escono in silenzio. La notte è fredda e buia, O Rin sale sulla tavola che Tappei si è legato sulla schiena e insieme iniziano a salire. “Man mano che però si avvicinava a Narayama, Tappei fu cosciente soltanto del suo camminare, un passo dopo l’altro. Da quando gli era apparso Narayama, Tappei era diventato come un servitore del Dio che abitava lì, e camminava per ordine del Dio” Ad un certo punto il sentiero si perde, le querce si diradano: inizia l’ascesa agli Inferi. Ossa, cadaveri, corvi che volteggiano del cielo ed altri intenti a cibarsi dei poveri resti: siamo nell’Inferno dantesco, siamo nell’Ade, siamo nel mito universale che ci precede, ci accompagna e ci supera senza confini di spazio e di tempo. O Rin sceglie una roccia, fa fermare il figlio e senza una parola stende a terra la stuoia che aveva portato sulle spalle. “Si mise in piedi dritta sulla stuoia. Chiuse le mani e se le appoggiò al petto, i due gomiti ben staccati dal corpo, la bocca chiusa e lo sguardo ostinatamente fisso a terra. La sua figura era immobile. Tappei contemplava il volto di questa O Rin il cui corpo non faceva il più piccolo movimento. Ebbe la sensazione che O Rin avesse nel volto un’espressione diversa da quando ancora era a casa. Sul suo volto i lineamenti di una morta avevano fatto la loro apparizione. O Rin stese le mani e afferrò quelle di Tappei. Lo fece voltare in direzione di dove erano venuti. Il corpo di Tappei cominciò a scottare, come se fosse entrato in un bagno di acqua calda e gocce di sudore gli imperlarono la fronte. Un vapore si levò dalla sua testa. O Rin strinse fonte le mani di Tappei. Poi, da dietro, lo spinse decisa. Tappei si mise a camminare. Si rimise in cammino rispettando il giuramento di questa montagna dove voltarsi indietro è proibito. (…) Era quasi sceso fino a metà di Narayama quando si accorse che qualcosa di bianco si rifletteva nei suoi occhi. Si fermò e guardò la neve davanti a sé. In mezzo alle querce danzava una polvere bianca. Era neve. Tappei ancora non ci credeva. Guardò avidamente la neve. La neve si mise a turbinare e a cadere più fitta.” Tappei torna indietro di corsa, infrangendo il giuramento della montagna. Vuole dire alla madre che il suo desiderio si è avverato: nevica, la sua sorte è buona, come diceva la canzone. O Rin coperta di neve, simile ad una volpe bianca, con un solo gesto gli intima di andarsene. E Tappei scende a valle, lasciandola alla sorte, alla morte. Nell’anima, le piaghe di un dolore indicibile e la certezza di un privilegio: essere stato accanto alla madre nell’ultimo viaggio, specchio della sua vita: salda, impavida e forte. O Rin, non ti dimenticherò. Tappei, fratello mio. So bene che chi scende da Narayama è un altro. Chi ha fatto la nostra strada sa. Mi siedo accanto a te a contemplare la neve. C’è con noi anche Gabriel[3]: “la sua anima si abbandonò lentamente mentre udiva la neve cadere lieve nell’universo, e lieve cadere, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e i morti”. Daniela Bianco
[1] Schichiro Fukazawa (,1914 -1987) nasce come musicista e scrive questo romanzo, la sua prima opera, all’età di 42 anni. Dirà Mishima: “all’inizio leggevo senza molto interesse, trovando la trama noiosa, ma dopo avere letto cinque, poi dieci pagine iniziai ad avere uno strano presagio. Ho continuato a leggere trattenendo il respiro sino a quel climax tremendo, e quando ho finito sono stato colto da una profonda emozione: sentivo di avere scoperto un capolavoro assoluto”. Tradotto per la prima volta in italiano per Einaudi da Bianca Garufi nel 1961 dall’edizione francese di Gallimard, nel 2024 esce per Adelphi, a cura di Giorgio Amitrano, la traduzione dall’originale, con il titolo “Le ballate di Narayama” [2] Non risultano evidenze o riscontri che nella cultura giapponese vi fossero consuetudini legate alla soppressione degli anziani. Si tratta dunque di una finzione narrativa [3] Dal racconto di James Joyce, I morti, in “Gente di Dublino”