La luce è il presupposto per ogni cosa. Senza la luce non avremmo tutto il resto, ma soltanto l’oscurità, il nulla. Per questo la luce è l’oro del mondo, la cosa più preziosa in assoluto, la prima parola pronunciata da Dio. Il Cantico delle creature incomincia con la lode al sole e alla luce; così incomincia la silloge poetica Tutto l’oro del mondo di Guglielmo Aprile, che con un balzo ci ricongiunge a questa antichissima poesia/preghiera, fra le prime della nostra letteratura, e quindi con il mondo al suo stato originario. Nelle poesie che compongono il suo “cantico”, Aprile fa però un gioco inverso, cucendo metafore e immagini inerenti al sacro su elementi che compongono la natura: così un uccello diventa “teologo piumato”, “araldo dell’alba”, “demiurgo del mattino”, “pontefice bambino che amministra i riti dell’alba”, tant’è che, nel gioco del rovescio, il sole sorge perché ode il canto, e non viceversa; le nuvole come “magi con indosso candidi paramenti di lino, tuniche d’ambra e rubino”; “il sole indossa candide / bende di ierofante […]”. L’uomo, per descrivere la magnificenza dello spettacolo cui è concesso di assistere, non può far altro che utilizzare quei nomi e aggettivi propri di quel mondo sacro che ha perduto. Ristabilire il contatto con la sacralità della natura diventa quindi la priorità soprattutto per ritrovare la propria umanità, e si deve, in un certo senso, tornare alla Genesi, rinnovare la propria vista come ogni giorno si rinnova dopo la notte, e riscoprire la magnificenza del creato. L’uomo è infatti presente in queste poesie in modo sommesso, appartato, da spettatore impreparato; l’uomo è “abbagliato”, “per troppa luce gli occhi sono roghi; bruciano fino a sciogliersi nel sole”. Aprile tiene l’uomo lontano da questo spettacolo, e sembra voler in qualche modo ribadire il concetto per cui, come nella Genesi, l’uomo è venuto per ultimo, non per primo. Non che l’uomo ne venga escluso, ma anzi reintrodotto con una consapevolezza nuova, timorosa e rispettosa; il poeta va riconquistando il suo posto nella natura con la deferenza del pellegrino, facendosi “esegeta di una bibbia che ha / come pagine steli d’erba e stelle”. Valerio Ragazzini Mezzogiorno (da Tutto l’oro del mondo di Guglielmo Aprile) Abbacinati dal sole, gli scogli verso lo zenit la fronte rivolgono, protendono occhi di statue, di orbi a un luogo che sta più in là di ogni azzurro. Verso l’alto, dove una città erige nel marmo immateriale delle nuvole le proprie architetture incandescenti: più in là di dove precipita l’orbita dell’ultimo gabbiano, dove ardono i soli senza estinguersi e lo sguardo si scioglie nello zenit si fa dardo che trafigge gli spazi e muore al largo. Ricchezza del cielo (da Tutto l’oro del mondo di Guglielmo Aprile) Celeste arazzo, sfarzo della notte! Una vena nell’etere appena fa sera si apre e si dissangua di stelle, i forzieri ricolmi della Via Lattea e di Andromeda sul nero lenzuolo riversano fiotti di perla, scie rabbrividenti di uccelli adamantini che in volo su ellissi di fuoco screziano il firmamento, di farfalle turbinate da un uragano ebbro sul prato degli spazi: un traboccare di gemme che si sparge nei golfi azzurri, fino a scavalcare la linea dell’orizzonte visibile; e quelle vedette alle porte della piramide del cielo vigilano un tesoro che niente in terra eguaglia, e di cui una scintilla preziosa e minuscola brilla anche nell’uomo, dentro la sua mente.