La nicchia - numero 8 - Su un incipit di Consolo (che vale più di un libro). Con quella “e” Consolo ritrova la sua terra, la sua gente, e la imbeve di poesia
Quante volte abbiamo letto su fascette e quarte di copertina di giornalisti “folgorati” dalle prime pagine di un nuovo best-seller? Quante volte il New York Times viene citato, dove il fior fiore della critica ci racconta il proprio incontro “folgorante” con le prime righe del libro, tanto da non riuscire più a staccarsene?
Poi vai a leggere il romanzone in questione e trovi la solita minestra. Di fulmini, tuoni e folgori nemmeno l’ombra. Al massimo una bava di vento. Bene, adesso vi folgoro io:
E la chiarìa scialba all’oriente, di là di Sant’Oliva e della Ferla, dall’imo sconfinato della terra sorgeva nel vasto cielo, si spandeva – ogni astro, ogni tempo rinasce alle scadenze, agli effimeri, ai perenti si negano i ritorni, siamo figli del Crudele, pazienza.
Questo è l’incipit di Nottetempo, casa per casa di Vincenzo Consolo, oggi rintracciabile in una edizione mondadoriana dalla suggestiva e inquietante copertina. Il romanzo narra (si fa per dire) l’arrivo di Aleister Crowley in Sicilia negli anni ’20. Ma la vera protagonista del romanzo è la lingua di Consolo: enigmatica, fatta di suoni prima che di significati. Non solo l’incipit del libro, ma anche gli incipit dei capitoli sarebbero da incorniciare. Ad esempio:
Il giorno moriva, assai ferinamente. Il sole decadendo tra il Porto e Marchiafava mandava rantoli focosi contro le tende ai balconi di palazzo Cìcio, disegnava sul pavimento del salone i trafori e gli sfilati dei ricami, le ghirlande i putti le fanciulle in circolo danzanti. Gli effluvi di cipria, di mirra, feminei e dolci, delle pomelie, delle dature, nelle giare invetriate, vagavano per l’aere, invadevano la casa.
Nella vaghezza sua, nell’astrattezza, nella sublime assenza, nella carenza di ragione, di volere, nell’assoluta indifferenza, nel replicare cieco, nella demenza, rivolge a un luogo solo la dura offesa, strema la tenerezza, frange il punto debole, annienta, Crudo o Vile o Nulla, vuoto vorticoso che calamita, divora, riduce a sua immagine, misura.
Ma torniamo a come comincia il romanzo. Quella “e” che pare riprenda un discorso antichissimo, con quella “e” Consolo ritrova la sua terra, la sua gente, e la imbeve di poesia. E quel chiarore scialbo che si spande, come una tenda tirata via dal palcoscenico, rivela la terra vittima dello scorrere incessante del tempo, dove ogni cosa è effimera, perché siamo “figli del Crudele”, un destino malevolo. E poi quel “pazienza”, che ti inchioda seduta stante, un pugno in faccia. Un “pazienza” che lascia ogni cosa sospesa, in bilico, nella serena accettazione di un panorama fragile che si rivela nell’alba. Ma l’incipit lascia addosso un senso di abbandono, di rassegnazione, ogni cosa pare sfaldarsi in quella luce.
Allora, solo per gioco, viene da chiedersi quante case editrici oggi accetterebbero un incipit così (figuriamoci il resto del romanzo). Solo per gioco, perché la risposta è ovvia. Allora dovremmo chiederci, e non per gioco, da quando la bellezza dello stile ha abbandonato la nostra letteratura. Perché certamente Carver aveva un suo preciso stile, ma da un po’ di tempo a questa parte scrittori, editor e lettori sembrano preferire una scrittura che scimmiotta Carver, quando in realtà è semplicemente scialba. Dimenticando così il legame stretto che lega la prosa alla poesia, almeno nella storia della nostra letteratura.
Valerio Ragazzini