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La nicchia - numero 76 - Questo suo continuo ‘cercarsi’ e ‘nascondersi’.

2025-02-13 17:19

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Rivista letteraria, Valerio Ragazzini,

La nicchia - numero 76 - Questo suo continuo ‘cercarsi’ e ‘nascondersi’.

Marino Moretti e il suo contrario

Sarà capitato a molti una volta terminata la lettura di un libro di sentire un vuoto, una mancanza, che solo l’autore avrebbe potuto colmare. In quanti si accalcano in fila, di fronte al proprio scrittore preferito, per ricevere un autografo e scambiare due paroline. Eppure si scorge, negli occhi degli scrittori, dei poeti, dei letterati, un certo imbarazzo, un disagio direttamente proporzionale all’amore dimostrato dai lettori. Perché scrittori, poeti, letterati quasi mai sono uomini di mondo, quasi mai amano intrattenersi in società, altrimenti non scriverebbero. Si potrebbe anzi dire che le presentazioni dei libri siano, in un certo senso, innaturali. Se potessero, la maggior parte degli scrittori se ne starebbe chiusa da qualche parte. Difatti, con l’avanzare dell’età, questi si fanno sempre più schivi, evanescenti.


Fra gli aneddoti, veri o inventati, che racconta Marino Moretti in quel libro atipico che prende il nome di Scrivere non è necessario, ce ne sono di esemplari: dal ragazzo che gli domanda “Ha mai avuto il vago sospetto di non somigliar molto ai suoi libri?”, alla donna che non ha dubbi, i libri di Moretti SONO Moretti stesso. Queste pagine rappresentano un tentativo del poeta e scrittore Moretti di trovare un senso alla sua esistenza, al perché scrive, a come gli altri lo vedono in quanto scrittore. Ma lo scrittore sbiadisce ogni volta; perché ogni volta che qualcuno cerca di descriverlo, lui si sente fatto in un altro modo, a volte perfino all’opposto. Lo faccia per gioco, per malizia o per chissà cosa, Moretti sfugge continuamente dallo specchio in cui si cerca di rifletterne il volto.


A nulla valsero quegli incontri, quelle accuse, quei corteggiamenti: Moretti, divenuto famoso come crepuscolare per via di quella raccolta Poesie scritte col lapis, fu messo a forza dentro le antologie, il suo nome accanto a quello degli illustri colleghi morti, e a nulla son valsi i numerosi libri scritti durante il resto della sua vita. Tutta la critica che negli anni ha tentato di identificare Moretti sembra lo abbia fatto dalle premesse errate: non essendo crepuscolare, allora cos’è? Sembra che a Moretti sia negata un’individualità, e il poeta gioca molto su questo.


Nonostante tutto, ancora oggi ricordiamo Moretti fra i poeti crepuscolari, ma trascorse la maggior parte della sua vita a scrivere novelle e romanzi; insomma, fu molto altro. Perfino nella poesia Epigono, Moretti si schernisce perché l’appellano “poeta minore della prima metà del Novecento”, e altrove si vergogna perfino un poco di non essere morto giovane, come si conviene ai poeti, come successo a Gozzano e a Corazzini. È come se, ormai vecchio, avvertisse la necessità di scomparire, di annullarsi; dopo una vita appartata, dove non gli è stato possibile riconoscersi in nessuna delle etichette, i dubbi del lontano 1938 prendessero corpo in una serie di poesie che incarnano questa volontà di “finirsi”. Da queste emerge il suo lato cinico, l’autoironia, la netta separazione fra quel giovane Moretti laggiù, a inizio secolo, che trattava la morte con grevità (“Ero poeta a quel tempo, facevo collezione di tristezze, come s’usava nel clima d’allora”), e questo scrittore alla fine dei suoi giorni, che la morte ha imparato ad aspettarla.


Si riportano di seguito tre poesie di Marino Moretti che rispecchiano questo suo continuo ‘cercarsi’ e ‘nascondersi’.


 


L’assenza (da L’ultima estate – 1968)


 


Estroso, un po’ arrogante,


talvolta mi son detto:


«Se scrivi con diletto


non sei un dilettante?»


Sì, certo, un dilettante,


altro non sono. Voglio


restare col mio orgoglio,


più che estraneo, distante.


 


Scrivo per mio diletto,


scrivo come per gioco


e m’importa ben poco


se sono o non son letto.


Eccomi acre, imprudente


come quando ero a scuola


e una sola parola


mi definiva: «Assente».


 


 


Epigono (da Tre anni e un giorno – 1971)


 


Epigono? Anche questo


è ciò che più detesto


dacché m’han detto la cosa com’è


offrendomi un caffè.


 


L’epigono sarebbe un Coso o un Sosia


a cui tocca l’aceto, non l’ambrosia.


Fors’anche peggio, un’ombra che scompare


che c’è e non c’è, ma pare,


e se c’è, son ben io che la depuro.


La voce ora maligna


d’uno che se la svigna


perché non vede in me che il morituro:


«Indecoroso offrir solo un caffè


ad uno come te.»


 


Ma c’è di peggio: «poeta minore


della prima metà del Novecento».


Ah no, questo poi no!


Concupisco un silenzio ch’io ben so,


fino al nome spazzato via dal vento


fra tante croci, là, senza rumore.


 


Esclusivamente per me (da Diario senza le date – 1966-1974)


 


Ansie d’artista nelle lunghe sere!


L’ansia del nuovo! Eppure non è triste


se umano sei, venir oggi a sapere


che il nuovo non esiste.


 


«Passatista» è la voce del passato


sentimentale? Io sono passatista!


Il presente può dir poco all’artista,


il futuro è lo scandalo, è il peccato.


 


Il futuro da orrore a chi lo teme


e già lo soffre con l’idea di Marte.


Nulla ormai dal futuro attende l’arte.


Chi vuol arte vuol arte e amore insieme.


Nel gioco della vita oggi le carte


hanno tutte, per me, lo stesso seme.


 


La vita mia non fu tutta esemplare,


ma non fu gesta, richiesta, protesta.


La mia divisa non fu più che questa:


 


IN CASA MIA SCRIVO COME MI PARE.


 


Valerio Ragazzini