Giorgio Anelli

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La nicchia - numero 6 - Provate a leggere Antonia Pozzi!

2024-01-13 12:02

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Rivista letteraria,

La nicchia - numero 6 - Provate a leggere Antonia Pozzi!

Di fronte al furore inconsueto e fiammeggiante

Provate a leggere per la prima volta una poesia di Antonia Pozzi: sarete colpiti come da un’epifania. È possibile respirare quell’aria rarefatta, pura, e compiere un’esperienza fenomenologica della Verità che si specchia nella natura in maniera stupefacente, limpida, come un segreto a lungo dimenticato. Sarà come affacciarsi per guardare dentro l’abisso ed essere da esso scrutati; ma esso non è vuoto, nietzschiano, esso è la profondità dell’anima, con tutto ciò che si agita sotto la sua superficie, misteri che accomunano tutte le anime.


Non si può ignorare che Antonia fu anche appassionata di fotografia della natura, soprattutto d’alta montagna, meta di arrampicate frequentissime e ardue. Basta guardare le sue fotografie per capire come rispecchino il nitore del fraseggio poetico: nel chiaroscuro delle ombre, le vertigini di versi così perfetti che hanno l’esteriore facilità delle ascese alpinistiche di provetti arrampicatori, apparentemente senza peso, ma nei fatti tesi in una continua, leggiadra ricerca di equilibrio non fortuito:


Questa tua mano sulla roccia


fiorisce:


non abbiamo paura del silenzio.


Immenso grembo


La valle spegne l’ansia


di lontane valanghe,


fumo lieve


sulle pareti nere.


Si accendon le tue dita sulla pietra


alte afferrando


orli di cielo bianco:


non abbiamo paura del deserto.


Andiamo verso il Sorapis:


così soli


verso l’aperto


altare di cristallo.


 


Salita, 11 gennaio 1936


 


Ma fate attenzione: Antonia Pozzi, nata nel 1912, rischia di essere fraintesa, così come lo è stata in vita e, per lungo tempo, dopo la sua morte. Il suo tragico suicidio all’età di 26 anni potrebbe troppo facilmente diventare per un lettore disattento l’unica chiave di lettura della sua opera, restituendoci una figura romantica, femminile intesa nei termini più riduttivi dell’epoca, un’intellettuale con una produzione poetica intimistica relegabile nell’ombra di una ritirata e coercitiva vita borghese.


Signorina, si calmi” è l’emblematica e lapidaria risposta del filosofo e suo professore universitario Antonio Banfi a cui aveva chiesto un parere sulle sue poesie. Mi piace credere (e forse immaginare) che non fu solo paternalistica reazione di chi crede la poesia appannaggio solo maschile, ma ancor più fu paura: spavento, di fronte al furore inconsueto e fiammeggiante, alla struggente universale consapevolezza del dolore, eppure, sempre alla ricerca di una quiete impossibile, inconciliabile infine con la vita.


Fiamme nella sera del mio nome


sento ardere in riva


a un mare oscuro –


e lungo i porti divampare roghi


di vecchie cose,


d’alghe e di barche


naufragate.


E in me nulla che possa


esser arso,


ma ogni ora di mia vita


ancora – con il suo peso indistruttibile


presente –


nel cuore spento della notte


mi segue.


 


Fuochi di S. Antonio 17 gennaio 1935


 


Eppure Antonia, come ogni artista si sente chiamata a compiere il proprio destino, assolvere il compito coraggioso cui sacrificare pur irragionevolmente la vita. Arriva come una visitazione la chiamata, e lei risponde:




(…) e se nessuna porta
s’apre alla tua fatica,
se ridato
t’è ad ogni passo il peso del tuo volto,
se è tua
questa che è più di un dolore
gioia di continuare sola
nel limpido deserto dei tuoi monti


ora accetti
d’esser poeta.


Un Destino, 13 febbraio 1935




Si giunge alla fine ‒ inevitabilmente ‒ al mistero del suicidio di Antonia, ben oltre il gesto estremo di una eroina romantica cui è negato l’amore.


Fu invece ultimo verso non scritto, piuttosto, compimento del proprio destino come ineluttabile modo per abbandonare la maschera che il mondo voleva per lei.




Che un giorno io avessi


un riso


di primavera – è certo;


e non soltanto lo vedevi tu, lo specchiavi


nella tua gioia:


anch’io, senza vederlo, sentivo


quel riso mio


come un lume caldo


sul volto.


Poi fu la notte


e mi toccò esser fuori


nella bufera:


il lume del mio riso


morì.


Mi trovò l’alba


come una lampada spenta:


stupirono le cose


scoprendo


in mezzo a loro


il mio volto freddato.


Mi vollero donare


un volto nuovo.


Come davanti a un quadro di chiesa


che è stato mutato


nessuna vecchia più vuole


inginocchiarsi a pregare


perché non ravvisa le care


sembianze della Madonna


e questa le pare


quasi una donna


perduta –


così oggi il mio cuore


davanti alla mia maschera


sconosciuta.


 


Il volto nuovo, 20 agosto 1933




Antonia Pozzi si tolse la vita nel 1938, l’anno delle leggi razziali, l’anno in cui la parola viene oltraggiata, il logos ‒ ultimo baluardo in grado di arginare la disumanizzazione, l’irrazionalità della violenza ‒ viene reso muto.


Forse l’età della parola è finita” scrive al poeta Vittorio Sereni, e allora, anche il poeta cessa di esistere.


Caterina Graziosi


 


 


 


 


 


 


 




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