Provate a leggere per la prima volta una poesia di Antonia Pozzi: sarete colpiti come da un’epifania. È possibile respirare quell’aria rarefatta, pura, e compiere un’esperienza fenomenologica della Verità che si specchia nella natura in maniera stupefacente, limpida, come un segreto a lungo dimenticato. Sarà come affacciarsi per guardare dentro l’abisso ed essere da esso scrutati; ma esso non è vuoto, nietzschiano, esso è la profondità dell’anima, con tutto ciò che si agita sotto la sua superficie, misteri che accomunano tutte le anime. Non si può ignorare che Antonia fu anche appassionata di fotografia della natura, soprattutto d’alta montagna, meta di arrampicate frequentissime e ardue. Basta guardare le sue fotografie per capire come rispecchino il nitore del fraseggio poetico: nel chiaroscuro delle ombre, le vertigini di versi così perfetti che hanno l’esteriore facilità delle ascese alpinistiche di provetti arrampicatori, apparentemente senza peso, ma nei fatti tesi in una continua, leggiadra ricerca di equilibrio non fortuito: Questa tua mano sulla roccia fiorisce: non abbiamo paura del silenzio. Immenso grembo La valle spegne l’ansia di lontane valanghe, fumo lieve sulle pareti nere. Si accendon le tue dita sulla pietra alte afferrando orli di cielo bianco: non abbiamo paura del deserto. Andiamo verso il Sorapis: così soli verso l’aperto altare di cristallo. Salita, 11 gennaio 1936 Ma fate attenzione: Antonia Pozzi, nata nel 1912, rischia di essere fraintesa, così come lo è stata in vita e, per lungo tempo, dopo la sua morte. Il suo tragico suicidio all’età di 26 anni potrebbe troppo facilmente diventare per un lettore disattento l’unica chiave di lettura della sua opera, restituendoci una figura romantica, femminile intesa nei termini più riduttivi dell’epoca, un’intellettuale con una produzione poetica intimistica relegabile nell’ombra di una ritirata e coercitiva vita borghese. “Signorina, si calmi” è l’emblematica e lapidaria risposta del filosofo e suo professore universitario Antonio Banfi a cui aveva chiesto un parere sulle sue poesie. Mi piace credere (e forse immaginare) che non fu solo paternalistica reazione di chi crede la poesia appannaggio solo maschile, ma ancor più fu paura: spavento, di fronte al furore inconsueto e fiammeggiante, alla struggente universale consapevolezza del dolore, eppure, sempre alla ricerca di una quiete impossibile, inconciliabile infine con la vita. Fiamme nella sera del mio nome sento ardere in riva a un mare oscuro – e lungo i porti divampare roghi di vecchie cose, d’alghe e di barche naufragate. E in me nulla che possa esser arso, ma ogni ora di mia vita ancora – con il suo peso indistruttibile presente – nel cuore spento della notte mi segue. Fuochi di S. Antonio 17 gennaio 1935 Eppure Antonia, come ogni artista si sente chiamata a compiere il proprio destino, assolvere il compito coraggioso cui sacrificare pur irragionevolmente la vita. Arriva come una visitazione la chiamata, e lei risponde: (…) e se nessuna porta ora accetti Un Destino, 13 febbraio 1935 Si giunge alla fine ‒ inevitabilmente ‒ al mistero del suicidio di Antonia, ben oltre il gesto estremo di una eroina romantica cui è negato l’amore. Fu invece ultimo verso non scritto, piuttosto, compimento del proprio destino come ineluttabile modo per abbandonare la maschera che il mondo voleva per lei. Che un giorno io avessi un riso di primavera – è certo; e non soltanto lo vedevi tu, lo specchiavi nella tua gioia: anch’io, senza vederlo, sentivo quel riso mio come un lume caldo sul volto. Poi fu la notte e mi toccò esser fuori nella bufera: il lume del mio riso morì. Mi trovò l’alba come una lampada spenta: stupirono le cose scoprendo in mezzo a loro il mio volto freddato. Mi vollero donare un volto nuovo. Come davanti a un quadro di chiesa che è stato mutato nessuna vecchia più vuole inginocchiarsi a pregare perché non ravvisa le care sembianze della Madonna e questa le pare quasi una donna perduta – così oggi il mio cuore davanti alla mia maschera sconosciuta. Il volto nuovo, 20 agosto 1933 Antonia Pozzi si tolse la vita nel 1938, l’anno delle leggi razziali, l’anno in cui la parola viene oltraggiata, il logos ‒ ultimo baluardo in grado di arginare la disumanizzazione, l’irrazionalità della violenza ‒ viene reso muto. “Forse l’età della parola è finita” scrive al poeta Vittorio Sereni, e allora, anche il poeta cessa di esistere. Caterina Graziosi
s’apre alla tua fatica,
se ridato
t’è ad ogni passo il peso del tuo volto,
se è tua
questa che è più di un dolore
gioia di continuare sola
nel limpido deserto dei tuoi monti
d’esser poeta.