Certi testi ci capitano fra le mani quasi per caso, nel momento giusto: non ho idea di come sia giunto a questa raccolta di poesie di Mary Oliver, Thirst [Sete], 2006 (Beacon Press). Il linguaggio limpido ed esatto in totale ascolto del mondo esterno, della natura, teso ad una semplicità interiore, dev’essere fra le caratteristiche di questa poetessa americana che, probabilmente, l’ha resa fra le più amate e conosciute negli USA e nel mondo. Vi si sente, come Oliver diceva in un’intervista, che quel che è importante nel processo creativo è innanzitutto la fiducia: “la poesia è qualcosa di conviviale … Chiede una comunità – è un rito comunitario. È un donare. È sempre un dono … a se stessi, e a chiunque altro ne abbia fame.” Nata (nel 1935) e cresciuta in un piccolo paese dell’Ohio, si iscrisse in vari college senza mai laurearsi. Trascorse alcuni anni a casa della poetessa Edna St. Vincent Millay, ad Austerlitz, New York – dove conobbe quella che sarà la compagna di una vita, Molly Malone Cook – aiutando la sorella Norma a risistemarne le carte. Scrisse sia poesia che prosa, si incamminò per boschi e spiagge in cerca di ispirazione e di molluschi, funghi e bacche e, come capita spesso con i poeti americani, fu insegnante di creative writing. Morì nel 2019, due anni dopo la pubblicazione della sua antologia personale, Devotions. I temi principali della sua poesia sono “l’intersezione tra il mondo della natura e quello dell’uomo, insieme ai limiti della coscienza e del linguaggio di quest’ultimo nell’articolare questo incontro” (Poetry Foundation). Primitivo americano, per esempio, dell’‘83, con cui vinse il Pulitzer Prize – pubblicato da Einaudi l’anno scorso –, “glorifica il mondo della natura, riflettendo la fascinazione americana per l’ideale della vita pastorale come espresso per la prima volta da Henry David Thoreau” (Britannia). Altri la considerano ereditiera dei grandi poeti lirici e celebratori della natura americani, fra cui Marianne Moore, Elizabeth Bishop, Walt Whitman… Su internet spesso vengono citate alcune sue poesie iconiche, come “Giorno d’estate” (“Non è vero che tutto muore prima o poi, fin troppo presto? / Dimmi, che cosa pensi di fare / della tua unica vita, selvaggia e preziosa?”), “Viaggio”, o “Oche selvative”: Non devi essere buono. […] Chiunque tu sia, non importa quanto solo, Scriveva un libro ogni anno o due, ma Thirst, una collezione di 43 poesie dedicate proprio alla compagna scomparsa pochi anni prima, non viene solitamente citato fra le opere maggiori. È il resoconto del suo confronto col dolore di questa perdita, e di un’apertura alla fede e a temi religiosi, senza perdere il suo usuale semplice sguardo sul mondo fisico. Ad ogni modo, secondo un recensore, “la poesia di Mary Oliver è un eccellente antidoto contro gli eccessi della civiltà… è una poetessa saggia e generosa le cui visioni ci permettono di guardare intimamente in un mondo che non facciamo noi.” Risuonano le parole di Giambattista Vico, secondo cui, in effetti, “nella barbarie ricorsa, i primi scrittori […] si trovano essere stati poeti.” * MESSAGGERO Il mio lavoro è amare il mondo. che è per lo più starmene in piedi e non disabituarmi DI RITORNO DA OAK-HEAD Con i pomi arrossiti per il vento furente, QUANDO SONO TRA GLI ALBERI Quando sono tra gli alberi, IL POETA VISITA IL MUSEO DI BELLE ARTI dalla pazienza suprema, Notazione musicale: 1 UN SERPENTE ADDORMENTATO NEL SOLE UNA GRANDE FALENA VOLA DALLA SUA GABBIA DI CARTA A NUOTO CON LA LONTRA SETE (epilogo) Un’altra mattina e mi sveglio assetata La cura dell’articolo e la traduzione delle poesie sono di Alessandro Burrone
Non devi camminare sulle ginocchia
per cento miglia nel deserto in penitenza.
Devi solo lasciar che il dolce animale del tuo corpo ami ciò che ama.
il mondo offre se stesso alla tua immaginazione,
come le oche selvatiche ti chiama, aspro ed eccitante –
annunciando ancora e ancora il tuo posto
nella famiglia delle cose.
Qui i girasoli, là il colibrì –
uguali cercatori di dolcezza.
Qui il lievito fermenta; là le prugne blu.
Qui la vongola dentro macchie di sabbia.
Sono vecchi, i miei stivali? La mia giacca è consumata?
Non sono più giovane, e ancora non mi avvicino alla perfezione? Non distoglierò la mia mente da quel che è importante,
che è il mio lavoro,
alla meraviglia.
Il phoebe, il delphinium.
Le pecore al pascolo, e il pascolo.
Che è fonte di gioia, sono tutti qui gli ingredienti,
che è gratitudine, per aver avuto una mente e un cuore e questi vestiti che diciamo corpo,
una bocca per gridare di gioia,
alla falena e allo scricciolo, alla vongola scoperta che dorme,
dir loro, ancora e ancora, com’è
che viviamo per sempre.
C’è qualcosa
del cielo carico di neve
d’inverno
un tardo pomeriggio
che fa esultare il cuore
con la stupenda insignificanza
del tempo.
Quando arrivo a casa – allora –
c’è qualcuno che mi ama.
Intanto
sto nella stessa oscura pace
come un qualsiasi pino
o vagabondo lenta
come il vento quieto e indifferente,
in attesa,
forse di un dono,
che la neve scenda
come fa
all’inizio a sprazzi,
poi, incontenibile.
Ovunque io viva -
in musica, in parole,
nei fuochi del cuore,
sono fedele con la stessa serietà
a questo luogo senza nome e indivisibile,
questo mondo,
che ora cade a pezzi,
bianco e selvaggio
di una fedeltà che eccede ogni nostra espressione,
le nostre più profonde preghiere.
Non ti preoccupare, prima o poi arrivo a casa.
starò sulla soglia
battendo i miei stivali e le mie mani,
le mie spalle
coperte di stelle.
specialmente i salici e lo spino di Giuda,
il faggio, la quercia e i pini,
emanano tali segni di felicità.
Oserei quasi dire che mi salvano, ogni giorno.
Tanto distante sono dalla speranza in me stessa,
dalla bontà, e dal discernimento,
né mi affretto mai per il mondo,
ma cammino lenta, spesso inchinandomi.
Intorno gli alberi si agitano tra le foglie
implorano, “Stai per un po’.”
La luce cola dai loro rami.
E chiamano ancora, “È semplice,” dicono,
“e anche tu sei venuta
al mondo per fare questo, per andare leggera, per riempirti
di luce, e brillare.”
A lungo
non ero nemmeno
in questo mondo, eppure
ad ogni estate
le rose
si aprivano in perfetta dolcezza
e vivevano
nella grazia del riposo,
nella sua esotica fragranza,
nella smisurata disposizione a dare
qualcosa, dal suo piccolo io,
a tutto il mondo.
Le penso migliaia di migliaia,
per molte terre,
ogni volta che le accoglie l’estate,
sorgendo
con le foglie che gemmano e guardano
nell’azzurro del cielo
o, per grazia,
nella pioggia
che nutrirebbe
le loro radici assetate
serrate nella terra ––
sabbiosa o dura, Vermont o Arabia,
cosa importava,
bastava semplicemente sorgere
nella gioia, ogni loro giorno.
C’è un insegnamento migliore?
Ancora no, non ne ho trovati.
La scorsa settimana ho visto il mio primo Botticelli,
quasi svenendo,
se potessi dipingerei anche io così
ma punto a uno scaffale più in basso, con alcune canzoni
sulle rose: maestre, anche, dei modi
di dire grazie, di lodare.
La corporeità dei poeti religiosi non andrebbe presa con tanta leggerezza. Colui o colei che ama Dio, guarderà più intensamente nelle Sue opere. Le nuvole non sono soltanto vapore, ma forma, mobilità, pioggia che nutre in sacchi di seta. Il campo dei peri non è soltanto profitto, ma un paradiso di luce. La falena, che non vive che un paio di giorni, o a volte un paio di ore, ha le ali di un verde pallido i cui bordi sembrano una notazione musicale. L’avevi notato?
Un tempo avevamo un cane che adorava i fiori; non importa quanto corresse per i campi, doveva fermarsi a considerare i gigli, i gigli tigrati, e altri in fiore lungo il tragitto. Un altro dei cani della nostra famiglia amava i tramonti e sgattaiolava verso la parte piu occidentale della riva e restava accovacciato per tutto lo spettacolo, quella pienezza color rosa e pesca. Poi trottava verso casa con il rosseggiare, scodinzolando.
L’ho trovato
si spaventa; scivola
sul bordo della roccia; si volta, mettendo in moto
le strisce sul suo corpo, ma senza
spostarsi. E, sebbene i libri dicano
che non è possibile, perché i suoi occhi
nella testolina sono troppo distanti, non mento
se dico che alza la testa e mi guarda
negli occhi e io lo guardo fino
a che entrambi non ci fissiamo
l’un l’altro. Vuole solo sapere
dove in questo mondo limpido e blu
possa essere al sicuro. Vuole solo andare
avanti con il suo flusso vitale. Poi
raddrizza il suo lucido dorso e cade
dalle rocce e sfreccia nel
groviglio di erbacce, strisciando, così, sul
mio piede nudo. Poi svanisce
nell’ombra fra l’erba, giù nel fango
di qualche ruscello, spaventando me
a sua volta. Ma questo
non importa. Piuttosto, parlerei del
filo senza peso del suo corpo a dire il vero
morbido e nervoso; le stelle senza nome dei suoi occhi.
QUANDO LE ROSE PARLANO, ASCOLTO
“Fintanto che potremo essere
stravaganti saremo
estremamente ed energeticamente
stravaganti. Poi cadremo
lamina dopo lamina a terra. Questo
è il nostro compito inalterabile, e lo facciamo
gioiosamente.”
E continuavano. “Ascolta,
le catene del cuore non sono, come pensi,
morte, malattia, dolore,
speranza non corrisposta, né solitudine, ma
fiacchezza, pentimento, vanagloria, paura, ansietà,
egoismo.”
Così mentre la fragranza sorge
dai loro cechi corpi, facendomi
piroettare dalla gioia.
Se n’è andato il verme, galleria di un corpo. Con la bocca
golosa di foglie e pomodori.
E con gli innumerevoli piedi.
È bello ora, e freme nell’aria
quasi avesse sempre saputo farlo,
strisciando per tutta l’estate.
Ha larghe ali, un chiarore in basso.
La luna, il tepore della notte lo eccitano.
Ma da dove veniva, la sua danza?
Certo non da una semplice notte d’inverno.
Non dev’essere mera ambizione, questa nuova architettura!
Che cosa può averla fatta?
Guardo più da vicino, e più a lungo, la prossima volta
che vedo un verme dal sangue verde strisciare e arricciarsi
nell’afa giorno dopo giorno
tra le foglie e il pomodoro liscio e fiero.
Sto osservando la lontra, come
gioca nell’acqua, come
mostra coraggiosa la pancia alle
onde che arrivano, come
respira in discesa seguendo improvvise
strisce di perle che dicono
quasi, ma non di preciso, a che punto
risalirà – come
sparisce, così a lungo da farmi disperare, per poi
spuntare, zuppa, lontano sulla riva e se
guarda indietro sicuramente
sta ridendo. Anche io
mi sono portata in questo
lago d’estate, dove le foglie degli alberi
quasi toccano, dove la pace viene
con l’acqua generosa, e mi sono
spinta verso la grazia e ho
fluttuato sul mio dorso pensando
a una poesia o due, per nulla fluide ma
mio Dio, per come mi hai fatto, la mia sola velocità.
MOZART, PER ESEMPIO
Tutte le rapide note
che Mozart non ebbe tempo di usare
prima di entrare nella nuvola della barca
cadono ora dai becchi
dei fringuelli
in raccolta dalla gioiosa estate
verso il duro inverno
e, come Mozart, non parlano che
di luce e letizia
anche se è vero, che le lame pesanti del mondo
ancora battono sotto.
Ed è quello che anche tu potresti fare, forse
se vivi con semplicità e cuore lirico
nei quartieri sovraccarichi o addirittura,
come Mozart a volte, in un palazzo,
offrendo melodia dopo melodia e ancora,
per rendere il cuore indurito di un principe
prudente e gentile, semplicemente felice.
della bontà che non ho. Cammino fuori
verso lo stagno e per tutto il tempo Dio ci ha
dato delle lezioni così belle. Mio Signore,
non sono mai stata un’acuta studentessa, ma col broncio
e curva sui miei libri per far passare l’ora
e la campanella; concedimi, nella tua
misericordia, un altro po’ di tempo. L’amore per la
terra e l’amore per te da così tanto
conversano nel mio cuore. Chi sa quel che
succederà alla fine o dove io sarò mandata,
ma ho già dato via un gran numero di cose
e m’aspetto che non mi si chieda di portar via nulla
se non le preghiere che, con questa sete,
sto lentamente imparando.