Memento audere semper

Un anno fa progettavo questo mio libro. Si tratta dei - più o meno - primi cento articoli scritti per Pangea: recensioni di grandi poeti, mie traduzioni, sperimentazioni, lettere, progetti editoriali. Nella postfazione, che qui ricalco, il direttore accenna ad una poetica:

L’anatema del poeta

Giorgio dice continuamente di essere poeta. Lo dice come fosse un’intimidazione: attende, infatti, di essere sconfessato, sconfitto, sfidato a duello. Lo dice reclamando il privilegio dell’ingenuità; è come un bambino che, dalla cima del tetto, compia una lapidazione del sole con le tegole: è convinto che la luce sia uno sciacallo, e di poterla uccidere. Naturalmente, nessuno è poeta – appena si dice poeta, trafigge l’incanto, decapita le maschere, si vanta del martirio, perché, ripeto, poeta significa offrirsi agli sputi, a un’estasi di fango, alle vigliaccherie di quelli che si pensano poeti, per viltà.

Per dire, ho capito che il mio è un orizzonte superficiale, blu. Nuoto a occhi chiusi, donandomi alle meduse, belle come le chiose al rotolo di Ezechiele; e a testa fuori, per guardare le nuvole. Che cretino: vado in mare per guardare meglio il cielo. La montagna, invece, mi respinge. In ascesa oltre i tremila, tra rocce a tracollo, il respiro si vetrifica, le gambe s’inchinano alla fatica, attributo di Dio. Ho visto il regno del gracchio alpino: mi giravano attorno a frotte, neri, come triangoli di ferro, che indecente nobiltà. Giorgio, invece, ha in montagna la sua Aden e la sua Harar, i luoghi dove la poesia si realizza, sfinendo.

A me Giorgio Anelli – nel cui nome sono inclusi lo sterminatore di draghi e una ambigua signoria – ricorda Enoc, il mendicante celeste che nei libri apocrifi a lui ascritti svela i nomi degli angeli osceni, capovolti, che “faranno spaventare ed adirare quelli che abitano sulla terra” (il primo si chiama Semeyaza, l’ultimo Izezeel, sono moltissimi); e Ryokan, il monaco folle che attraversa la letteratura giapponese del XIX secolo. “Visse in sintonia con lo spirito delle sue poesie, trovando rifugio in capanne di frasche, indossando vesti dimesse, vagabondo per le campagne, giocando con i bambini e parlando con i contadini... professando una semplice fede nel principio ‘volto sereno e parole gentili’”: così lo descrive Yasunari Kawabata, durante il discorso di accettazione del Nobel per la letteratura, era il 1968, facendone il proprio santo. Questa è una sua poesia:

“Avrà mai fine la mia ostinata stupidità?

povero e solo – questa è la mia vita

crepuscolo dilata il disastro di una città casuale

torno a casa ancora con la ciotola vuota”.

Lo chiamavano “sommo scemo”, fu sommo maestro; d’altronde, nessuno credeva ai mirabolanti viaggi di Enoc. Qualcosa di violento, di verticale per eccesso di bassezza, un programmatico digiuno e lo stigma dello sterminio di sé li distingueva.

Le zanzare continuano a estenuare le mie caviglie – tutto è corpo.


Davide Brullo