La nicchia - numero 15 - Se una porta non viene chiusa, aldilà, c’è sempre un altrove.

Lascia socchiusa la porta e ascolta la voce di Anna

La porta accostata,
il lieve ondeggio degli alberi di tiglio…
Sul tavolo, chissà dimenticati,
un frustino e un guanto.

L’alone giallo della lampada…
Sento un fruscio.
Perché sei andato via?
Io non capisco…

Domani sarà un mattino
di serenità.
La vita è splendida,
sii saggio, cuore.

Sei così stanco,
rallenta, batti piano…
Pensa, ho letto
che l’anima è immortale.


Nella notte bianca

Non ho chiuso la porta,
non ho acceso le candele,
non lo sai ma, per quanto fossi stanca,
non riuscivo ad andarmene più a letto.

Guardare, come si smarriscono i sentieri
dentro al bosco, all’imbrunire ormai del giorno,
ebbra del suono di una voce
che è simile alla tua.

E sapere che tutto è già perduto,
che la vita è un tremendo inferno.

Ero certa
che saresti ritornato.

(1911)

Ho scelto tre poesie di Anna Achmatova, appartenenti a periodi diversi, e in tutte c’è una porta socchiusa.

Le ho scelte perché mi hanno ricordato il quadro di Matisse La Porte-fenêtre à Collioure (1914), che amo moltissimo: ante spalancate su una campitura nera, un’opera misteriosa, allusiva che ci induce a scrutare nel buio, aspettandoci di vedere emergere una forma che sveli il segreto.

Se una porta non viene chiusa, aldilà, c’è sempre un altrove.

Nella notte bianca sono tante le cose che la Achmatova NON fa.

Non chiude, non accende, non dorme.

È l’attesa, è l’amore, è guardare i sentieri della vita che vanno nel buio, nel bosco, che è il luogo ancestrale dell’inconoscibile, dello smarrirsi. I due amati si cercano e non si trovano, in un moderno Cantico dei Cantici:  

lungo la notte, ho cercato
l'amato del mio cuore;
l'ho cercato, ma non l'ho trovato

Anna non fa, attende un ritorno ‒ sembra che ‒ proprio mentre scrive questi versi abbia improvvisamente la consapevolezza escatologica che tutto è già perduto, che non avverrà un ritorno. Quei sentieri resteranno deserti.

Perché sei andato via?

Si chiede Anna ‒ io credo se lo chiederà per tutta la vita. Gli abbandoni e le attese hanno ritmato la sua esistenza: i due mariti, poi il figlio esiliato e incarcerato, la patria che l’ha acclamata e poi cancellata.

Sii saggio cuore, riposati, la vita è un inferno, ma fatti coraggio, perché l’anima è immortale.

Si può scegliere di leggere due Achmatova: in queste prime poesie è figlia dell’acmeismo, il movimento che voleva riportare la poesia alla realtà, allontanarla dal simbolismo. Una lirica limpida che inizialmente guarda ancora in faccia al futuro (l’altra faccia dell’amore); poi, dagli anni Venti le raccolte di versi si fanno quasi preghiere dolenti e nostalgiche, disincantate, scritte nell’abbandono e in una progressiva perdita della propria identità di poeta, moglie e madre.

 È impossibile dimenticare che la Poetessa è passata attraverso due guerre mondiali, la Russia sovietica, il totalitarismo staliniano.

Viene deprivata di tutto. Lentamente, diventa una donna anonima in fila assieme ad altre centinaia, davanti al carcere in cerca di un segno che suo figlio, prigioniero politico, sia ancora in vita.

Il regime cerca di murarla viva, ma Anna lascia la porta socchiusa.

"Siete poeta? Allora potreste descrivere tutto questo?". Lei rispose: "Sì, posso."

Quando anche Marina Cvetaeva lascia la Russia nel ’22, la profonda delusione non le impedisce di lasciare quella porta socchiusa, e forse è questo che la salva dallo stesso gesto dell’amica poetessa, poi morta suicida. Da quello spiraglio forse non sarebbe potuta uscire, ma sarebbe filtrata, assieme al terrore, anche una nuova vocazione:

Alla morte

Tu lo stesso verrai – perché non subito allora?
T’aspetto - ho molta pena.
Ho spento la luce e aperto l’uscio
A te, così semplice e prodigiosa.
Prendi per questo l’aspetto che vuoi,
Penetra come un proiettile avvelenato
O furtiva avvicinati come un esperto bandito,
O avvelenami col delirio del tifo.
O con una storiella da te inventata
E a tutti nota fino alla nausea,
Ch’io veda l’azzurra sommità del berretto
E il capofabbricato pallido di paura.
Ora tutto è uguale per me. Turbina lo Enisej,
Brilla la stella polare.
E l’estremo terrore offusca
Il bagliore turchino degli occhi adorati.

Requiem 19 agosto 1939. Casa delle Fontane

Da quella porta Anna si aspetta la morte, semplice prodigiosa, e ancora una volta è buio, non ha acceso la luce.

La parola poetica ha bisogno del buio, così giunge nuda, ha bisogno di una porta aperta che la faccia entrare. Ed ecco che Anna, pur invocando la morte, nella disperazione, fa entrare qualcos’altro. La consapevolezza di avere un compito che la trascende.

Ciò non la salva dal terrore, ma ne è trasformata.

Spogliata di tutto, come Giobbe, dell’amore, del figlio, della libertà, del nome, delle sostanze per vivere e delle amicizie più care, resta solo il grido, e allora la lirica lascia il passo al poema (a scriverlo ci mette vent’anni).

Poema senza eroe è questo: un’arca, una voce disincarnata, senza un eroe appunto, addirittura senza il poeta, voce di chi ha perso tutto ma si è riempita del dolore che sconfina da sé e diviene universale, di tutte le Marie sotto la croce, che porta alla luce  ‒ e quindi porta allo stato di coscienza ‒ tutto l’orrore del Male, ma anche la memoria di un popolo: quello russo, e delle sue innumerevoli vicissitudini frammentate nelle storie di ciascuno.

Il poema è la forma poetica più antica, resa necessaria dall’esigenza di dare unità e senso al destino dei popoli e della civiltà.

Questa Achmatova è difficile come lo è la storia primordiale dell’umana sofferenza, dell’abbandono, della stimmate del dolore dimenticato e invisibile. Non a caso sono versi frammentati, aspri, che volutamente Anna chiede non vengano frugati per trovare sensi nascosti, simboli, significati oscuri: ciò che ho scritto, ho scritto ribadisce.

Questa è l’altra Achmatova, che si può e si deve leggere per restituire la sua immagine per intero: frutto dell’esperienza del limite imposto ingiustamente, della privazione della libertà di esistere come artista.

Anna, lasciando socchiusa la porta dell’anima, ha permesso che restasse la sua voce, e che essa potesse diventare la voce di tutti.

Caterina Graziosi