La nicchia - numero 30 - Terramadre

È un canto alla morte e al tempo stesso un canto alla vita quello che traccia e disegna e balla Andrea Temporelli nel suo poemetto “Terramadreˮ. È per di più una preghiera in endecasillabi, forse una nenia, se non un racconto prossimo e postumo, quanto presente al figlio che un giorno (chissà!) lo replicherà, reiterandone il rito accanto a un fuoco diamantino nella notte che il ricordo non dissolve.

Ma innanzitutto occorre dire che Andrea Temporelli ‒ nel dialogo prima con la madre, poi con il caro fratello ‒ viene sommerso e subissato di voci: sono quelle dei defunti che accompagnano il suo peregrinare al cimitero, per pregare e onorare appunto una madre e un fratello che lo hanno lasciato prematuramente.

Non so se sbaglio a dire (ma almeno ci provo, al limite interpreto), che Temporelli scruta e quasi condanna o intravede in quelle voci tanti porci che grufolano (simili a dio), ma ormai chiusi dalla pietra, sotterrati nella terra che è “mamma-mummia per ciascuno.ˮ Quella Terramadre che a volte o spesso si dimentica, “più che mortaˮ.

Persino una sconcia locandiera ha da dire la sua, in questo canto irrefrenabile che spicca negli occhi e nella testa del poeta, soffiando (forse) nella notte sui lumini e “offrendo il grembo sterile.ˮ Questa locandiera che spande i versi ai vermi, in una trenodia che non può essere altrimenti, non perde ancora il desiderio e, sfacciata, vuole godere.

Tuttavia, “Terramadreˮ è Maria Rosa… (1948-1984)… e il conto con la morte, sembra dirci Andrea Temporelli, non si può saldare, poiché l’infinito contro altro infinito non può sbocciare: “bellamorte/ che nulla dell’amore puoi sapere.ˮ

Terramadre è muta, eppure ha spiato “transumanze di bestie/ e d’uominiˮ, accogliendo sempre le ossa di tutti, impassibile-imperturbabile. Terramadre è un silenzio quasi eterno che altera il grido del poeta, trasformandolo da bestemmia in preghiera; chiedendo propriamente a Dio di nascere o di riconoscerci, e soprattutto di palesarsi.

In questo poemetto Temporelli è come una croce incastonata nel vizio delle voci che non riesce a zittire, ma che smentisce nella loro insolenza. È il misticismo del poeta che tenta di annullare quel «Nessuno vince la propria morte». Il poeta in quanto tale ha ossessioni, una delle quali è proprio quella di scacciare i suoi fantasmi petulanti.

“Bellamorte, la mia morte. Nessuno può vincerti.ˮ… Il ritornello ci reclama a una realtà assoluta, che anche per il poeta è impossibile da dimenticare. Ciò nonostante: “Io posso perdonare quando mano/ nella mano mi conducevi qui,/ madre che sei nella terra, e indicavi/ il frutto che non hai saputo dare.ˮ Eppure Andrea Temporelli afferma tenacemente di poter vincere la morte accompagnando il figlio davanti alla tomba del fratello che tuttora gli parla e lo benedice, quasi pregandolo egli stesso (proprio il fratello Andrea) di onorarlo per tutto ciò che lui non è stato e non ha potuto vivere.

È davvero forte e commovente il finale di questo poemetto che in realtà non è nient’altro che uno sguardo sul poeta stesso, sul mondo, e in fondo su di noi.

Occorre salvare l’amore in questo troppo infinito che ci riguarda, non ci lascia e fors’anche ci attraversa.

“Noi viviamo definitivamente.ˮ

Caro Andrea, non ce lo scorderemo mai.

Giorgio Anelli