La nicchia - numero 39 - “…Lì non si muta. Lì non si prega…”
che mi dici dell’angoscia, quella buca
in cui mi rintano con la scatola di Kleenex?
In quella buca è legata alla sedia la donna di fuoco
in quella buca storcono il collo uomini di cuoio,
laggiù il mare si muta in una pozza di piscia.
Lì non ci si lava né si mettono pesci.
In questa buca tua madre strilla tutto il giorno,
tuo padre le scava la fossa e mangia dolci da forno.
Il tuo bambino si
strozza, la tua bocca è argillosa.
Hai occhi di vetro. Si rompono. Non sei coraggiosa.
Sei sola come un cane al canile. Sulle mani uno sfogo
di bolle. Le braccia tagliate, legate con uno spago
di fil di ferro. Lì la tua voce suona estranea, esterna.
Lì non si muta. Lì non si prega.”
Annoverata tra quei “confessional poets” che negli anni Cinquanta e Sessanta rivoluzionarono la scrittura poetica, Anne Grey Harvey Sexton (Newton, Massachusetts, 1928 – Weston 1974) aiutò ad aprire le porte non solo alle poetesse, ma anche al riconoscimento dei diritti delle donne; scrisse a proposito di mestruazione, aborto, masturbazione, adulterio prima che temi come quelli fossero trattati da altri, ridefinendo così i confini della poesia stessa. La sua scrittura esplorava quei malesseri che la gente viveva: le relazioni, la maternità, la religione, il femminicidio, la morte, con una forza insistente e attrattiva, unica. Il timbro caldo e seducente della sua voce avvolge e affascina il lettore o lettrice che si fermi ad ascoltarla dai ricercati video vintage, testimonianza dei numerosi reading che la stessa Sexton, figura, oseremmo dire, rock, portava sui palchi con la sua “Her Kind Band”, indossando tacchi a spillo, applaudita e venerata come una dea. Una buona traduzione dei suoi testi tra le mani e l’ascolto della sua stessa voce che legge i propri scritti, è un’esperienza estasiante, quasi erotica, da non perdere; ve l’assicuro.
Irrequieta e fragile, sensibile e vulnerabile, al di là della sua icona di “strega maledetta”, “madonna storta”, “malata bipolare o pazza”, la Sexton è stata prima di tutto, un’artista della parola e della scrittura e raffinatissima poetessa. Il libro della follia (traduzione di Rosaria Lo Russo, per la Casa Editrice La Nave di Teseo) è l’ultima raccolta di poesie, pubblicata in Italia nel maggio 2021, della poetessa americana Anne Sexton. Questa raccolta, pubblicata per la prima volta in America nel 1972 con il titolo The Book of Folly, rende pienamente idea del cosiddetto “stile confessionale” in poesia, che aveva reso celebre la poetessa alla quale era stato assegnato il Premio Pulitzer nel 1967. Il libro è diviso in tre parti: 1. “Trenta poesie”; 2. Tre racconti, “Ballare la giga”, “Il Balletto del Buffone”, “Cala le ciocche”; e una sezione poetica finale, “Carte di Gesù”.
I temi di questa raccolta sono molto estremi: dalla disgregazione della figura del padre all’umanizzazione del divino, al rapporto diretto con la malattia mentale. Assieme ai tre componimenti in prosa che costituiscono un unicum nella produzione della Sexton, troviamo infatti poesie che pagina dopo pagina erompono dal testo scritto e generano immagini di follia che si sedimentano nella psiche del lettore. Questo spogliarsi e infierire con durezza su di sé manda lettori e lettrici fuori fase, come in “Anna che era matta”.
Ho un coltello sotto l’ascella.
Quando sto sulle punte trasmetto messaggi.
Sono una specie di virus?
Sono stata io
a farti ammattire?
Sono stata io
A farti andare in acido?
Sono stata io
A dirti di arrampicarti e sporgerti dalla finestra?
Perdona. Perdona.
Dimmi che non sono stata io.
Dimmi che no.
Dimmelo.
Parlotta le avemmarie sul nostro cuscino.
Prendimi in collo allampanata dodicenne
E sommergimi di coccole.
Sussurra come un ranuncolo.
Mangiami. Trangugiami come un budino.
Mettimi dentro.
Prendimi.
Prendi.
Nelle immagini variegate che, poesia dopo poesia, restituiscono senza pietismi né lirismi l’esperienza della malattia mentale, e lo fanno con un colpo diretto allo sterno, assieme ai tre componimenti in prosa che costituiscono un unicum nella produzione della Sexton, troviamo una voce poetica più che mai priva dei vincoli non solo metrici, della poesia, ma anche sintattici: il linguaggio esplode, e ogni parola, ciascuna scelta con cura per creare accostamenti inediti di senso, concorre a creare un’atmosfera nuova, surreale. Una lingua nuova. La Sexton ci ricorda che non c’è davvero un limite ben definito tra realtà e surrealtà, tra vissuto e trasposizione poetica, tra follia e sanità. Tale limite viene definitivamente a cadere nelle poesie in cui la Sexton parla del suo rapporto con la poesia, come “L’accumulatrice seriale” e “L’uccello ambizione”. In particolare in quest’ultima, che è la poesia che apre la raccolta, la Sexton sceglie significativamente di far crollare come prima cosa la cosiddetta “quarta parete”, ricordando a sé e al lettore che per lei la poesia non è una naturale riscrittura dei pensieri, ma è un “trafficare con le parole” che “la tiene sveglia” (quello stesso “business of words” che viene citato anche nella dedica alla figlia Joy). Se le parole sono “di ciò che resta, l’unica verità”, la poesia non è una vocazione velleitaria, ma una faticosa professione che come salario restituisce l’unica cosa che la Sexton, in questa prima poesia, sembra desiderare: l’immortalità, l’essere ricordata dai posteri.
Eccola, arriva l’insonnia delle 3:15
all’orologio s’inceppa il motore
come se a una rana sulla meridiana
le prendesse un colpo apoplettico
proprio al quarto d’ora.
Trafficare con le parole mi tiene sveglia.
Bevo una cioccolata,
calda mamma marrone.
Mi piacerebbe una vita semplice.
Invece tutta notte ripongo
poesie in una scatolona.
È la mia scatola dell’immortalità,
il mio piano rateale,
la mia bara.
Tutta la notte ali cupe
sbattono nel mio cuore.
Ognuna un uccello ambizione.
L’uccello vuole stramazzarsi dall’alto,
tipo dal Ponte di Tallahatchie.
Vuole accendere un fiammifero da cucina
e immolarsi.
Vuole volare sulla mano di Michelangelo
per riuscirne dipinto sulla volta.
Vuole perforare un nido di calabroni
per uscirne con la testona di una divinità.
Vuole prendere il pane e il vino
per dare alla luce l’uomo che sguazza
felice nel Mar dei Caraibi.
Vuole essere premuto come un tasto
per riuscire a decifrare il mistero dei Re Magi.
Vuole prendere congedo distribuendo a sconosciuti
pezzetti del suo cuore come antipasto.
Vuole morire cambiandosi d’abito
per scattare verso il sole come un diamante.
Vuole. Voglio.
Caro Dio, non sarebbe meglio
bersi una cioccolata calda?
Devo prendere un nuovo uccello
e una nuova scatola dell’immortalità.
Di follia in questa ce n’è già abbastanza.
In una nota critica a Il libro della follia, Antonello Cristiano consegna al lettore un’interessante chiave di lettura all’intero corpus poetico della Sexton: <<… Il Libro della follia non è la summa confessionale del suo disturbo clinico psichiatrico, la fiala nera compressa fra le parentesi delle sue meningi, ma un libro altamente spirituale... Anche al lordo delle Jesus papers si tratta di un libro spirituale, cioè astorico…Il prossimo suicidio dell’autrice nulla rileva, e dopo questo libro l’autrice può ancora essere in carne ossa ed imene in mezzo a noi…L’ultima Sexton fu senza ma e senza forse una mistica. Ma una di quelle mistiche elettriche come Santa Francesca Romana o Margherita Maria Alacoque, capaci di bere da un teschio o divorare il vomito degli ammalati.>>
Dora Laera
(I testi poetici riportati sono tratti da “Il libro della follia” di Anne Sexton – Casa Editrice La Nave di Teseo - traduzione di Rosaria Lo Russo)