Lettera aperta ad Andrea Temporelli

Gallarate, 14 giugno 2023

Caro Andrea,

ti scrivo, come quasi sempre accade, dalla mia stanza-studio. Sto scontando giorni di malattia. Il male oscuro si è di nuovo palesato, per fortuna questa volta in forma lieve, o almeno così pare. Non ti interpello però per far passare il tempo, bensì per tentare un’allegoria. Spero mi comprenderai.

Al lavoro ultimamente non riuscivo più a farmi scivolare le cose addosso: colleghi impuniti che escono delle mezzore per fumarsi una sigaretta, altri che escono col telefono in mano, poi vanno in bagno, poi guardano whatsapp, poi fanno domande stupide (per perdere ulteriore tempo) ai responsabili, che danno inspiegabilmente loro corda anziché redarguirli.

Non succede più come una volta che ogni tanto ci richiamavano in cerchio per dirci che se non rispettavamo le scadenze rischiavamo di restare tutti a casa. Tutto è lasciato cadere, tutto è permesso. Se una responsabile accusa un lieve dolore alla spalla, la scusa è bell’è pronta per andarla a consolare una ventina di minuti.

Nessuno interviene più. Il grosso di noi viene guardato e trattato come un «poverino»: che disdetta!

Lavoro in un ambiente protetto, tu lo sai. Da quando mio padre è morto, la mia malattia è esplosa. Un disturbo bipolare dell’umore si palesa ogni tanto.

Se ti scrivo certe cose è per ribellarmi a questa situazione per nulla gratificante, nella quale i responsabili vogliono sentire il meno possibile i tuoi problemi; e se costretti a farlo, inventano balle per tentare il prima possibile di non avere più niente a che fare con te (troppe volte è successo, troppe volte tutt’ora accade…).

Per questo motivo decade la stima, molto è lasciato al caso, allo sbando. Siamo arrivati al punto che qualche responsabile scambia persino la sera prima qualche messaggino con qualcuno di noi, il quale crede che il responsabile in questa maniera sia diventato un amico, invece che un superiore al quale obbedire.

Insomma, l’opera educativa che un tempo mi accoglieva in tutto il suo splendore, oggi mostra la carcassa di una nave che a tutti gli effetti sta per colare a picco. Non esagero nel dirti che ogni giorno mi faccio il segno della croce anche per il lavoro. Fino a quando potremo resistere così sul mercato? Esistono forse dei fondi regionali che possono coprire svariate mancanze? Ma se anche esistessero, così facendo ci tolgono il senso della fatica, il significato del lavoro.

Da qui, il “famoso precettoˮ mandateci in giro nudi ma non toglieteci la libertà di educare deflagra all’istante. Come dire, che si predica bene ma si razzola male. Qui, puntualmente qualcuno si intasca decine di sacchi gialli e se li porta via. Qui, la musica per otto ore di fila viene sparata dalla radio, e per me è una fatica e deconcentra. Mi hanno risposto che calma i disabili; come a dire: colpirne uno per educarne cento. Tuttavia, la musica a lungo andare rintrona, non calma né educa.

Come vedi, dopo tre anni (non tre giorni) di vita in comune con una madre molto malata, probabilmente inizio a perdere qualche colpo.

Mi fermo. Arrivo al punto.

Ti ho raccontato tutto questo perché forse non è lo stesso che accade in poesia? Probabilmente ho inventato tutto, ho creato un’allegoria per palesare la decadenza esplicita della poesia e del mondo letterario in generale.

Benvenuto al mondo!, mi dirai tu, che sei critico letterario affermato e poeta di lungo corso: Hai scoperto l’acqua calda!

Eppure, t’incalzo: se nessuno alza il coperchio della pentola, l’acqua che bolle rischia di fuoriuscire.

Non credere che in questi tre anni non abbia tentato di cambiare o, meglio sarebbe dire, migliorare la mia vita, provando a capire, tra le altre cose, se fosse stato fattibile andare a vivere fuori di casa. Ma con uno stipendio part-time l’unica favola che credevano di inculcarmi ‒ come se fossi un ebete poverino ‒ era quella di prendermi in affitto un monolocale a duecento euro nei piccoli paesini del circondario.

Ebbene, io non credo alle favole; almeno, a quelle orali, tanto per dar fiato alla bocca. Quelle della letteratura per l’infanzia, sono ben altra cosa, oro che cola. Dunque, l’unica cosa che mi rimane da fare è stare qui, resistere, magari ammalandomi, come sta già accadendo, ma rimanendo fedele alla dignità della vita e della persona. E non è lo stesso in poesia?

Andrea, per anni ho scritto versi e composto libri. Il mio stile è sempre stato caratterizzato, ha sempre denotato un verso libero, incurante delle regole della forma. Ora, tuttavia, mi sto preparando alla metrica. Studierò cosa significa fuggire dalla banalità del verso (quanti, troppi, poeti e scrittori frustrati della domenica ci sono in giro!), per restare sul posto e tentare di creare poesie vere, le quali si distingueranno e creeranno il ritmo grazie magari a una dialefe, a una sinalefe, oppure a causa di una sineresi, o dieresi, se non di una sinafia, per esempio. Endecasillabi, ottonari, chiusure, chiasmi, saranno il minimo da tenere in considerazione di un mondo nuovo che non rappresenta affatto molta poesia odierna: carcassa di nave che a tutti gli effetti sta per colare a picco.

Per questo io mi ribello contro la banalità e l’ignoranza dei nostri tempi; contro chi (e sono tanti ‒ ahimè, ahinoi ‒ in ogni campo) ci vuol far credere che senza sudare si può ottenere lo stesso risultato. Sarò per ciò una mosca bianca? La pecora nera da scacciar dal gruppo? Se così sarà, almeno sarà senza infingimenti, e, per quel che mi riguarda, non avrò vissuto invano.

In speranza immortale e, come dici sempre tu: duc in altum

                                                                                             Giorgio Anelli