Quando ero bambino trascorrevo i pomeriggi a giocare a nascondino. C’erano i cortili, e le case che li abbracciavano, e i bambini che correvano. Col sole e col vento, con l’arsura e con la pioggia, a quel tempo giocavamo al gioco più vecchio del mondo, il più bello del mondo, forse. Ricordo l’essere preda e predatore, fuggire e rincorrere, nascondersi e cercare. Il balzo nel cuore del “liberi tutti”. La voce di uno che libera tutti, la potenza di quelle parole: tutti liberi, liberi tutti. Questi ricordi, questo grido, me l’ha portata in dono dal passato la lettura di alcune poesie di Luca Canali. Latinista raffinatissimo e colto, scrittore, poeta, docente universitario, attivista politico per un certo tempo della sua vita, Canali ha vissuto per una buona parte della sua esistenza con una grave forma di malattia psichica che contorceva il suo essere oltre l’indicibile. I ricoveri ospedalieri e gli psicofarmaci potentissimi ingabbiarono la sua anima e la sua stessa vita, confinata dalle leggi della psichiatria ospedaliera e della chimica farmaceutica. Ancora dalla clinica (…) Piango a dirotte lagrime le miserie del mondo, rispecchiate e contorte in un elegante rifugio di folli, tra illusioni di affetti, in rigide gerarchie di funzioni, di neutri gestori del morbo armati di terapie, di sigle su flebo, di laidi profitti, di brevi esecuzioni sommarie, fra elettrodi omologati dal tedio, se tramonta l’angoscia su una quiete spettrale o sul rictus di un clan di dementi avvinghiati agli uncini della norma. * Siamo qui ad un passo dalla morte, dalla deformità, dall’insania, ognuno con lo sguardo fisso in un punto dello spazio o sulle foglie oscillanti oltre i vetri in una tregenda d’inni di guerra ascesi dalla vita spegnendosi in un murmure di pietà tra i cavalieri disarcionati di questa disperazione senza approdi. *** Sole nero Sole nero mio, amico della vita, dei bambini, dei fiori. Io preferivo l’ombra, i giunchi lungo i corsi d’acqua silente, i muschi, il forte odore di terra bagnata. Ma ora l’ombra si è fatta buio, si avvicina la morte. Allora forse non sono mai stato vivo, bambino, amico dei fiori La tentazione di porre fine all’incubo di vivere con un gesto estremo è forte ma non prevale sulla bellezza che riesce comunque a filtrare attraverso le strette sbarre di quella prigione, sull’amore donato e ricevuto. Ritornare Non voglio più restare in questa terra di nessuno Regolata da scansioni di orologi e di calamite, dalla esigente ragnatela dei farmaci, dal venale rapporto coi guaritori Le mie radici sono in te, sposa, le mie fronde e i miei fiori sono in te, figlia oh poter presto tornare al disordine della via lontano da schemi e da regole, se non quelle della lotta per sopravvivere altrettanto ferree e spietate ma armoniose più d’ogni rintocco di una pendola ben educata, e con voi dimenticare i giorni nel trascorrere dei giorni, e fiorire, appassire, morire guardandoci indietro con il male non ancora sconfitto, vedendo da fuori della clinica un luogo di dolore e di speranza per gli esclusi dalla virile pena di esistere tra gli oltraggi di mille altri sventurati in un’alterna vicenda di assalti come difesa e solo rari attimi di tregua nel segno di parole d’ordine decifrate: vita e morte, amore e odio e indifferenza, terra e fuoco, acqua e cielo di angeli declassati ma mai ribelli Ho letto struggenti poesie, vere e proprie lettere d’addio prima di un suicidio immaginario. Alla moglie “forse la mia morte riordinerà la scacchiera/ certo sarebbe meglio guarire ma poiché non è dato e i miei gesti/ dettati dal ricatto dell’angoscia/ intrigano i percorsi occasionali/ e formano in astratta precisione/ la gabbia per la difesa della belva/ che forse è in me/ da un balzo che la uccida/ dileguerò ne/ la quiete del nulla” Alla figlia “Figlia, io vado, parto per un viaggio/ lunghissimo dal quale non si torna/ per non dare spettacolo del morbo che mi deprime con diuturne angoscie/ e teleguida i gesti del mio corpo/ Ti accoglierò con le mie braccia d’ombra/ quando anche a te la vita – vita vera di gesti netti e di pensieri chiar i- tardi, assai tardi spero, verrà meno” La poesia di Canali, così tragica ed eroica, non guarisce e forse nemmeno salva: libera. E libera tutti, perché siamo nati per volare, come questi ultimi magnifici versi scolpiscono nel cuore: Aliante Pura ala nel cielo, anima Di un progetto umano senza colpa, splendore di un icaro in volo su candida croce, porta negli aliti di vento, nelle correnti cristalline in lotta fra loro e in pace con le leggi eteree, anche il mio cuore asfittico al livello di un respiro più vasto che allenti la stretta dei nodi entrati nella fronte come i grani d’un crudele rosario.[1] Paolo Valeri
[1] Le poesie citate sono tratte dalle raccolte “La Deriva” e “Il Naufragio”, edite da Rizzoli rispettivamente nel 1979 e nel 1983