La nicchia - numero 19 - "Tre donne" di Sylvia Plath alla BBC

Erano gli anni sessanta e la BBC Radio commissionava a Sylvia Plath un testo poetico da trasmettere sul terzo canale radiofonico; ispirandosi ad un film di Ingmar Bergman del 1958, “Alle soglie della vita”, Sylvia  scrisse ”Tre Donne”, poema radiofonico per tre voci.

Maestra nel rovistare tra i brandelli dell’anima e nel trarre l’universale dal particolare, la Plath racconta in versi liberi un dramma che si consuma dalla notte dei tempi: la maternità.

Tre donne senza nome, tre voci che senza incontrarsi raccontano il lato oscuro della nascita, la sua contiguità con la morte, la solitudine ineluttabile della donna, l’invincibile terrore.

Non la narrazione - anestetico, né la madre zuccherosa o la nuvola di borotalco: le voci sono di donne  dilaniate nel corpo, oppresse dalla rinuncia ai loro sogni, devastate dall’indifferenza degli uomini che ignorano il loro mondo interiore.

Non c’è giudizio né pregiudizio per queste  voci che, intercalandosi senza dialogare tra loro,  offrono a chi legge una visione d’insieme corale, quasi di tragedia greca dove l’immaginario poetico è popolato di animali, luci, piante e colori. Nulla di fiabesco: apocalittico, piuttosto.

Coraggiosa la Plath, ad scrivere per la  BBC quest’opera così moderna e dirompente (per allora come per ora).

E coraggiosa la BBC, a mandarla in onda la sera del 19 agosto 1962: fragore di tuono al termine di una giornata estiva.


PRIMA VOCE

(Una donna si appresta al travaglio serena)


Mi sento lenta come la terra. Sono molto paziente,

girando attorno al mio tempo, i soli e le stelle

mi considerano con attenzione.

(…)

Non posso evitare di sorridere di ciò che conosco.

Le foglie e i petali mi attendono. Sono pronta.

 

(Nel giro di poco cambia tutto)

 

Sono calma. Io sono calma. E la calma di qualcosa di orribile:

il momento del terrore prima che il vento cammini, quando

le foglie voltano il lato e mostrano il loro pallore.

(…)

Sono muta e bruna. Sono un seme sul punto di scoppiare.

La scorza oscura è la parte morta di me ed è chiusa in sé stessa.

 

(Inizia il travaglio)

 

Sento la prima onda tirare il suo carico di agonia verso di me, inesplicabile, fatale.

Ed io, una conchiglia, faccio eco sulla bianca spiaggia

Affronto le voci che sovrastano, l’elemento terribile.

Il dolore si fa insopportabile

Sono al centro di un’atrocità.

Quali pene, quali dolori devo partorire?

Come può una simile innocenza uccidere e uccidere?

Mi sto rompendo in due come il mondo.

 

(Infine, la nascita)

 

Chi è lui, questo bambino blu, questo bambino furioso,

scintillante e strano come se scagliato da una stella?

(..)

Non ho mai visto una creatura così luminosa.

Le sue palpebre sono come fiori di lillà

Soffice come una farfalla notturna è il suo fiato.

 

(La meraviglia del contemplare presto diventa ansia)

 

Per quanto posso essere un muro, tener lontano il vento?

Per quanto tempo posso rendere

Meno aspro il sole con l’ombra della mano,

intercettare le frecce bluastre della luna fredda?

Le voci della solitudine, le voci del dolore

Mi toccano la schiena ineluttabilmente.

Come potrà smorzarle questa piccola ninnananna?

E’ cosa terribile

Essere così aperti: è come se il cuore

Mettesse un volto e camminasse nel mondo

 

SECONDA VOCE

(Una segretaria abortisce. Si è sentita male in ufficio. Non smette di battere sulla tastiera della macchina da scrivere)

 

Sto morendo intanto che siedo. Perdo una dimensione

I treni ruggiscono nelle mie orecchie, partenze, partenze!

Il sentiero d’argento del tempo si vuota nella distanza,

il cielo bianco si vuota della sua promessa come una tazza.

(…)

Questa è una malattia che mi porto a casa, questa è una morte.

Di nuovo, questa è una morte. E’ l’aria,

Le particelle della distruzione che io risucchio?

 

(Fino al culmine dello strazio: il senso di colpa)

 

Sono accusata, sogno di massacri.

Sono un giardino di nere e rosse agonie. Le bevo,

odiando me stessa con odio e con paura.

(..)

Il sole è calato. Io muoio. Costruisco una morte.

(…)

L’esperienza agghiacciante del vuoto

Questo terribile cessare di tutto.

 (…)

Sono indifesa come il mare alla fine della corda.

Sono inquieta. Inquieta ed inutile. Anche io creo cadaveri.

 

(Presto sarà dimessa, può tornare a lavorare)

 

Non ho neanche bisogno di una vacanza, posso tornare a lavorare oggi.

Posso amare mio marito che capirà

Che mi amerà attraverso la nebbia della mia deformità

Come se avessi perduto un occhio, una gamba, una lingua

 

(Eppure)

 

Sono ancora me stessa. Non più dispersa in fili senza trama.

Sanguinando mi son fatta bianca come la cera, non ho attaccamenti.

Sono piatta e virginale, che significa che nulla è accaduto

Niente che non possa essere cancellato, spaccato, fatto a pezzi, ricominciato.

(…)

Sono io. Sono io-

Che assaporo l’amarezza fra i miei denti.

L’incalcolabile malignità del quotidiano.

(…)

Mi ritrovo. Non sono un’ombra,

Sebbene un’ombra nasca dai miei piedi. Sono una sposa.

La città aspetta e dolora. Le piccole erbe

Spaccano la pietra, verdi di vita.

 

TERZA VOCE

(Una studentessa, una gravidanza indesiderata)

 

Tutto quello che potevo scorgere erano i pericoli: tortore e parole,

Stelle e piogge d’oro – concezioni, concezioni!

Ricordo una bianca, fredda ala

E il grande cigno con il suo terribile sguardo

Che veniva verso di me, come un castello, dall’altro del fiume.

C’è un serpente nel cigno.

(…)

Non ero pronta.

Non avevo reverenza.

Pensai che potevo negare le conseguenze

Ma era troppo tardi per questo. Era troppo tardi e la faccia

(Continuò a formarsi con amore, come se fossi pronta.

(…)

Non sono pronta a nulla di quanto possa accadere.

Avrei dovuto assassinare ciò che mi assassina.

(..)

La vedo nel mio sonno, la mia rossa, terribile bambina.

Piange attraverso il vetro che ci separa.

Piange ed è furiosa

I suoi gridi sono uncini che afferrano e straziano come gatti.

E’ con questi uncini che s’arrampica alla mia attenzione

 

(L’addio)

 

Lei è una piccola isola, addormentata e tranquilla,

E io sono una bianca nave che fischia: addio, addio.

(…)

Sono tanto vulnerabile d’un tratto.

Sono una ferita che cammina fuori dall’ospedale.

Sono una ferita che lasciano andare

Lascio dietro di me la salute. Lascio qualcuno

Che vorrebbe starmi attaccato: sciolgo le sue dita come fossero bende:

Io vado


@bigail

(n.d.r. nel poema radiofonico le voci spezzano la loro narrazione intercalandosi tra loro pur senza dialogare. Non potendo riportare il testo integrale, per una migliore comprensione ho scelto di procedere “seguendo” per intero la narrazione di ogni singola voce ed introducendo qualche piccola indicazione, tra parentesi).

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