Alejandra! La voce ti chiama dall’ombra. Io ti rileggo da tutti i giardini metafisici. Nella tua insonnia riconosco la presenza, che sia la parola a evocare forze cieche. Le dediche ai tanto stimati corrispondenti: Cristina Campo, Antonio Porchia. Una scrittura dell’effimero, dell’estremamente fisico sconfina nell’opposto. Labirintica, speculare, sempre pronta a osservare il doppio, l’immagine che si dissolve. Nel tuo ponte sognato parlavi della psicoanalisi, del narcisismo, del tuo rapporto con il corpo: una fame. L’esperimento proseguiva alla ricerca di altri corpi femminili e maschili; l’eterna suggestione di un doppio inafferrabile, il fantasma della morte. Eri la più grande poetessa argentina, eppure della tua poesia non eri mai contenta. Alternavi momenti in cui ti apprezzavi ad altri in cui non ti sentivi degna. Dicevi di amare Antonin Artaud, Octavio Paz, César Vallejo. Raccontavi del romanzo che non avresti mai scritto, affondando in un infinito diario: testimonianza e trasformazione, ponte tra la vita e il sogno. Insonne, sognavi le strade sgretolate dalle mani che squarciano i dipinti. L’estrema luce nell’ombra, l’annerirsi e spaccarsi dei soli al risveglio. La notte, fidata amica, tua scrittura. La notte, la morte, l’ombra. La morte ti assediava, cercavi di sfuggirle nella fame, nel proliferare di esperienze che dessero alla vita un suono. La grande ombra si faceva carne e ti abbracciava, eri la bambina mai cresciuta, la voracità della vita irrefrenabile. Tutti i fallimenti del mondo ti martellavano alle tempie. Dicevi di essere ermetica, oscura, e ti chiedevi: Cos’è chiaro, cos’è oscuro? Coprivi il tuo volto-fiammifero, nel timore di appiccarti in uno sguardo. Leggevi Proust, ti specchiavi nei salotti, dicevi Io, manifestavi amore per un nichilismo da smarrimento cosmico, misuravi vestiti e fumavi, rievocavi Pessoa nei bar di Buenos Aires, osservando gli astanti, sognavi Parigi. Ti saresti poi sentita abbandonata in quella città straniera, meno surrealista rispetto alle tue aspettative; avresti preferito la forma epistolare, scrivendo lettere dai manicomi all’amato Cortázar. Lui comprendeva il delirio, ti era accanto con la mente quando sradicavi la parola dal suo senso, ti chiedevi perché non si potesse bere la parola acqua, cercavi una corrispondenza onirica al reale senza mediazioni. Ti aveva accecato quest’assenza, nella ricerca spasmodica della parola esatta, della vertigine, della perfezione, cedendo all’imperfezione del corpo, a una carnalità che brucia e divora. Cercavi nel tumulto dei bruciati l’osso del braccio corrispondente all’osso della gamba. Parigi sarebbe stata un massacro, non eri fatta per l’accademia, ma per la carne che iniziavi a rifiutare. Eri fatta per la parola che sgorga nel silenzio. Cercavi infine il silenzio, un’apocalittica resa dei conti. Tu sapevi, guardavi la morte negli occhi, vedevi le vite ulteriori. Presencia tu voz
en este no poder salirse las cosas
de mi mirada
ellas me desposeen
hacen de mí un barco sobre un río de piedras
si no es tu voz
lluvia sola en mi silencio de fiebres
tú me desatas los ojos
y por favor
que me hables
siempre Presenza la tua voce in questo non potersene uscire le cose
dal mio sguardo
mi spossessano
fanno di me un vascello in un fiume di pietre
se non è la tua voce
pioggia sola nel mio silenzio di febbri
tu mi liberi gli occhi
e per favore
parlami
sempre. Alejandra Pizarnik (traduzione di Claudio Cinti) Ilaria Palomba