La Siberia. Per la mia generazione è stata prima di tutto una fascia in cima al planisfero, da indicare alla maestra con il righello nell’interrogazione di geografia. Poi un luogo di deportazione, i gulag e le condizioni di vita estreme, l’armata bianca e l’armata rossa, lo spossessamento delle terre, il kolchoz e i sovchoz delle lezioni di storia.
Infine una fascinazione della grande letteratura: “le memorie dalla casa dei morti” Dostoevskij, i personaggi immortali di Tolstoj, Šalamov e i suoi racconti della Kolyma.
Siberia terra leggendaria fatta di stratificazioni della memoria; popoli e volti, ghiacci e foreste, taiga e tundra. Siberia e i suoi grandi fiumi, l’infinità di laghi, l’immensità della terra madre, rigorosa con il buio ed il gelo, generosa con le foreste e le materie prime custodite nel suo ventre.
Siberia restituita con tutta la sua forza e bellezza dal primo romanzo, dai molti richiami autobiografici, di Evgenij Evtušenko[1], pubblicato nel 1981, quando l’autore aveva già 49 anni ed era affermato poeta: “Il posto delle bacche”.
Il romanzo inizia con un epilogo e finisce con un prologo: rovesciamento degli schemi e avvertimento al lettore: l’inzio è una fine e la fine non è che un inizio, la linea del tempo è senza fine, il cerchio invece di chiudersi si innalza su un altro piano e genera infinite spirali. Non è un caso se i fatti narrati accadono durante un’anomala, torrida estate.
Il caso – sempre che esista – ha riunito un raccoglitore di funghi, un delegato per le bacche, un giovane geologo, un autista ed una ragazza madre su uno stesso camion. Le loro traiettorie si uniscono per il tempo di un viaggio lungo la Siberia; i loro incontri lungo la strada sono segnali da decifrare: un raccoglitore di pigne, un’apicultrice, un’orsa con il suo cucciolo, terribili rapide da affrontare. La strada si fa leggenda di popoli, di canti e violenza.
Il senso della vita – quello della storia – sta nel non perdere la propria umanità, nonostante le ferite, le tragedie e le umiliazioni. Ogni incontro è un quadro poetico che affonda le sue radici nella leggenda e nel mito illuminate da una speranza: “Tutte le nostre conoscenze sono nulla nei confronti di ciò che non sapremo mai. Questo non è triste: è meraviglioso. Quando esiste l’infinito dell’inconcepibile, la stessa conoscenza può sperare nell’infinito”.
Dell’infinita vastità dell’ignoto la Siberia è il paradigma. Ora è il buio ed il gelo, morte e solitudine, ora è la tenerezza del sole sui germogli di betulla, il baluginio del sole sulle polle di sorgente, la dolcezza dei frutti selvatici, la vastità degli spazi incontaminati.
Ed il siberiano – temprato dall’ignoto che è già scritto nella sua terra - tutto questo lo sa e lo accetta.
“Al popolo bisogna ricordare chi è il popolo. Glielo ricorda la guerra, ma il prezzo di questa rimembranza è troppo alto. Glielo ricorda la letteratura (…) La letteratura è proprio un modo di ricordare al popolo che è il popolo, all’umanità che è l’umanità. Proprio gli scrittori hanno conseguito quello che la medicina è stata impotente a fare: hanno vinto la fatalità della morte. I loro protagonisti, vissuti molto tempo addietro, fanno per sempre parte del popolo, e la morte non può nulla contro di essi”.
Sì, c’è molta letteratura in questo romanzo dai personaggi stralunati. Un raccoglitore di pigne che parla solo in versi e un ragazzino poeta, innamorato della letteratura, che compra libri al mercato nero e copia con la vecchia macchina da scrivere le poesie di Pasternak, Il maestro e Margherita, e tutto quanto riesce a trovare in biblioteca, perché “non si può vivere senza”.
E di avventura in avventura, tra qualche eccesso di stravaganza e qualche didascalia di troppo il romanzo volge al termine, o meglio al prologo, con una profezia per chi legge.
“ L’unica cosa che può sopprimere per sempre la guerra è un cambiamento della psiche umana. In chi salirà in volo sopra la Terra e la vedrà in tutta la sua bellezza e fragilità avverrà un cambiamento psicologico. Dapprima saranno unità, poi centinaia, poi milioni. Sarà un’altra civiltà, un’altra umanità. Apprezzerà in modo totalmente nuovo la bellezza della terra, il sapore di ogni sua bacca…”
Forse proprio questo siamo, noi che leggiamo: cercatori di profezie.
Daniela Bianco
[1] Evgenij Evtušenko, nato a Zima (Urss - Siberia) il 18.7.1932 e morto a Tulsa (USA) il 1.4.2017, è stato un poeta, scrittore, fotografo e regista. Prese il cognome dalla madre, nota cantante lirica di origine ucraina.