Da qualche tempo, e dopo molto leggere, mi sono fatta persuasa che il romanzo breve sia un genere letterario – se così si può dire – estremamente affascinante da leggere ed altrettanto complesso da scrivere. Il minimo vacillare dell’autore (per forma, contenuto, tempi narrativi) non ha abbastanza tempo-spazio per farsi… dimenticare e rimarrà lì, tra le pagine, come una riga rossa. Ma uno scrittore in stato di grazia nel romanzo breve regala ai suoi lettori la perfezione.
C’è poi uno schema narrativo che mi incatena alla pagina, mi porta in connessione con un mondo altro, parla alla mia giovinezza e la risveglia: è il racconto – confessione: il protagonista apre la sua vita, la sua anima e la sua storia a sconosciuti: i lunghi monologhi, anche interiori, il luogo chiuso: lo scompartimento di un treno, la cella di un carcere, il ponte di una nave.
Ed è proprio dal ponte dell’Oceania, nave transoceanica che parte dalle Indie alla volta di Napoli, che Stefen Zweig, ci parla di passione accecante, di colpa e redenzione, di onore da difendere a costo della vita.
Questo elaborato gioiello narrativo, scritto nel 1922, anticipa, non per i temi ma per i meccanismi, la celeberrima “Novella degli Scacchi” scritta da Zweig quasi vent’anni dopo.
In questo romanzo l’io narrante di notte, testimoni le stelle mute e l’oceano, riceve sul ponte della nave la confessione di un medico che si è imbarcato clandestinamente; egli deve chiudere un cerchio, riparare un torto commesso e seguire il suo destino.
Queste le parole che preparano il loro incontro.
“In piedi, levavo lo sguardo al cielo: avevo la sensazione di trovarmi in un bagno dove l’acqua piove calda dall’alto, solo che lì era la luce, bianca e tiepida, ad irrorarmi le mani, a inondarmi soave le spalle, il capo, a penetrarmi non so come dentro, giacché ogni tetraggine in me si trovò non so come illuminata. Respiravo libero, purificato, e con subitane felicità sentivo l’aria sulle labbra come una limpida bevanda: aria morbida, frizzante, che dava un lieve senso d’ebbrezza, commista ad un alito di frutti, al profumo di isole lontane. (…) Quasi faceva male, quella luce stellare calcinata, abbacinante: desideravo celarmi da qualche parte nell’ombra, disteso su una stuoia, per non sentire quel fulgore non su di me ma soltanto al di sopra di me, riflesso sulle cose, così come si contempla un paesaggio da una stanza in penombra. (...) Altalenando, il vomere ora si alzava ora si abbassava nelle zolle nero fluttuanti, e io sentivo tutto lo strazio dell’elemento soggiogato, tutta la libidine dell’energia terrestre in quel giogo balenante, E nella contemplazione perdetti il senso del tempo (…) Mi sedetti, gli occhi chiusi e tuttavia non pieni di buio, giacché su di essi, su di me, scorreva l’argenteo fulgore. Sotto sentivo sciaguattare i flutti, sopra di me trascorrere con inudibile suono il flusso bianco di questo mondo. E quel sussurro a poco a poco mi entrò nel sangue: avevo perso la percezione di me stesso, non sapevo più se quel respiro fosse il mio oppure il cuore della nave che pulsava in lontananza, fluivo, mi effondevo in quel mormorio incessante del mondo nel mezzo della notte. Un tossicchiare secco, proprio accanto a me, mi fece trasalire.”
E noi lettori, invisibili e acquattati tra una scialuppa ed una gomena, ascoltiamo con ogni nostra fibra la vicenda del medico al termine della sua carriera e del suo agire in uno stato psichico alterato ed ineluttabile; egli è in preda all’amok, termine malese (e titolo del libro) che indica la furia cieca che si impossessa di un uomo privandolo totalmente delle sue facoltà: una sorta di sdoppiarsi dell’io per cui l’uno assiste impotente all’ossessione inarrestabile dell’altro che lo conduce dritto nelle braccia dell’abisso.
Il genio di Zweig non è inferiore alla sua maestria nell’invenzione e nel racconto: abbiamo in mano pagine straordinarie che palpitano come se fossero vive, personaggi minori scalpellati con colpi netti e precisi su materia grezza, una donna dell’alta società cesellata con qualche periodo che perfetto è dir poco; uno spaccato del mondo e delle sue sordide convenzioni, dell’uomo e delle sue aberrazioni.
Un romanzo perfetto.
Daniela Bianco
