La nicchia - numero 27 - Caro Davide

Sera del 27 febbraio 2024

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Caro Davide,

sono ben lieto che tu oggi ci abbia regalato un bell’articolo su Pangea (https://www.pangea.news/bosco-poesia/), raccontandoci di aver scoperto un bosco. E non lo dico con ironia, tutt’altro. Non pensarlo nemmeno! Ciò non di meno, avrai vissuto anche tu le tue estati della fanciullezza per boschi, prati, laghi… I tuoi idilli d’amore ed egloghe lontane…

Te lo dico perché, leggendoti, mi hai fatto rammentare che io ci ho vissuto anni (intere stagioni, se non quasi tutti i mesi dell’anno e degli anni, giustappunto) per e nei boschi. Boschi di montagna, s’intende.

Sì, ho avuto questa sfacciata fortuna. Ma lì, mi sono scoperto poeta. Quell’atavica splendente ossessione che già germinava in me bambino, senza ancora che io lo percepissi compiutamente.

Posso con fermezza e certezza dire che ho vissuto praticamente ogni mese dell’anno ‒ ogni stagione della mia fanciullezza e adolescenza, se non pure della mia prima maturità ‒ per le foreste boschive d’alta quota. Le chiamavamo, “I massiˮ! ‒ queste impalcature immense d’alberi fitti sotto la cui protezione sporgevano sentieri e enormi massi millenari trascinati nei secoli dalle lingue dei ghiacciai. Li ho vissuti con le compagnie di allora (immaginati un foltissimo gruppo di coetanei che andava a far grigliate, bisbocce, le prime romanticherie…), ma li ho vissuti persino da solo.

Ah, quante volte mi son trovato solo! Attenzione, non mi sto lamentando! Sto soltanto raccontando alcuni ricordi. Quante volte, Davide… E c’era la luna delle notti estive a farmi compagnia lassù e a indicarmi la strada del ritorno a casa. E c’era il silenzio della neve-dio, quando m’inginocchiavo in tutto quel freddo magnifico bianco. C’eravamo io e il suono indelebile degli elementi: cascate, torrenti, venti, piogge. C’eravamo io e il sibilo-ululato del cane lupo, che all’improvviso quasi ti sbarrava la strada, e non sapevo più che fare.

Davide, ho attraversato il bosco! Come ci ricordano le fiabe! E l’ho attraversato anche metaforicamente tante di quelle volte, tante di quelle vite, che nessuna mai andrà persa nel fuoco della mia memoria. Persino ora, adesso, sto attraversando il bosco buio, attorniato dai lampi negli occhi di volpi e cerbiatti che fissi e immobili mi stanno a guardare. Non ho paura a dirlo. Ho avuto paura, invece, ad attraversarlo quel bosco. Perché, altrimenti, senza timore, non sarei diventato l’uomo che sono né il poeta di cui ogni tanto si parla.

Mi auguro ancora quindi che ci siano sempre boschi nella nostra vita. Poiché c’era un bosco alle spalle dell’Eremo di Santa Caterina del Sasso, quel giorno dove ho letto versi di Pasternak alla mia musa, e lì l’ho conquistata. Quel giorno dove le lessi la tua lettera che tengo ancora ostinatamente lacera nel mio portafoglio.

E mi auguro che la fiaba ritorni ad essere raccontata e ascoltata accanto a un fuoco caldo, quello della nostra famiglia, che ci sostiene e ci protegge.

E infine auspico, desidero, spero che questa poesia infinita che ci compenetra e ci appartiene, venga sempre divulgata alla gente; al nostro, come ad ogni popolo, che, come sempre, ha fame e sete ‒ più di tutto!, più di qualsiasi altra cosa ‒ di bellezza. 

In speranza immortale, 

                              tuo Giorgio