VOCI LIBERE - 1 - Ho dato poesia agli uomini
Torino, 15 maggio 1935
La città si sveglia bruscamente: un’importante operazione di polizia politica è in corso, vengono perquisite le abitazioni di molti giovani intellettuali sospettati di essere attivisti o simpatizzanti antifascisti: da tempo venivano osservate le loro frequentazioni, abitudini, amicizie, relazioni e movimenti. Gran dispendio di polizia quel mattino, si deve agire presto e in fretta per cogliere i giovani di sorpresa, la tazzina di caffè in mano, il letto ancora caldo; si deve evitare che possano distruggere materiale compromettente, far girare la voce dell’operazione in corso.
Molti di loro verranno arrestati ed interrogati presso le Carceri Nuove di Torino: tra i tanti Norberto Bobbio, Massimo Mila, Giulio Einaudi, Leone Ginzburg, Franco Antonicelli, Carlo Levi, Cesare Pavese.
Pavese a quel tempo è il direttore responsabile di “La Cultura”, rivista pubblicata dalla neonata casa editrice Einaudi ed invisa al regime fascista per le autorevoli firme di intellettuali antifascisti che ospita. Tra le sue carte, durante la perquisizione, viene trovato un copioso fascio di lettere tra Tina Pizzardo e Bruno Maffi, entrambi legati al movimento antifascista clandestino “Giustizia e Libertà”: tutto ciò è più che sufficiente per arrestare Pavese, ventisettenne, e sottoporlo a interrogatorio. Vanamente egli spiegherà di non avere mai svolto attività antifascista – egli stesso è iscritto al Partito Nazionale Fascista, a breve deve dare l’esame di stato per conseguire l’abilitazione all’insegnamento ‒ e di avere soltanto dato il suo consenso a far recapitare quelle lettere al suo domicilio per fare un favore alla Pizzardo, grande, folle e disperato amore di Pavese, la “donna dalla voce rauca”: fidanzata ufficiale di Altiero Spinelli (detenuto all’epoca a Regina Coeli). Tina frequentava, all’insaputa l’uno dell’altro, sia Pavese che Enrico Rieser, un giovane di origini polacche. Travisando i sentimenti di lei, poco prima di essere arrestato Pavese la chiese in moglie e nutriva serie speranze – come si deduce dalle lettere che scriverà alla sorella Maria dal carcere romano prima, e dal confino a Brancaleone poi – di ottenere una risposta alternativa.
Nel corso dell’interrogatorio viene chiesto a Pavese di dare conto di alcuni appunti e di un elenco di nomi scritti di suo pugno trovati tra le sue carte: spiegherà trattarsi dell’abbozzo del progetto, non andato in porto, di un gruppo di amici, poco più che ventenni, di fondare una rivista letteraria dal titolo eloquente negli anni del fascismo: “VOCI LIBERE “, come le menti ed i desideri dei giovani intellettuali che vi avrebbero scritto.
Pavese non convince gli inquirenti: viene trasferito a Roma a Regina Coeli, processato e condannato a scontare tre anni di confino, a Brancaleone Calabro.
*-*
E’ il 9 di agosto quando da Brancaleone scrive alla sorella così:
“Cara Maria,
sono arrivato a Brancaleone domenica 4 nel pomeriggio, e tutta la cittadinanza a spasso davanti alla stazione pareva aspettare il criminale che, munito di manette, tra due carabinieri scendeva con passo fermo, diretto al Municipio. Il viaggio di due giorni, con le manette e la valigia, è stata un’impresa di alto turismo. (…) Qui sono l’unico confinato. Che qui siano sporchi è una leggenda. Sono cotti dal sole. Le donne si pettinano in strada, ma viceversa tutti fanno il bagno. Ci sono molti maiali e le anfore le portano in bilico sulla testa. Imparerò anche io e un giorno mi guadagnerò la vita nei varietà di Torino. La grappa non sanno cosa sia. Se me ne mandate qualche ventina di bottiglie, io penserei a berle. (DICO SUL SERIO)”
Il confino è un’esperienza, per un certo verso, che potrebbe non preoccupare troppo Pavese: la solitudine è sua compagna da sempre, l’isolamento una condizione non disprezzata, spesse volte ricercata. Un unico tarlo lo rode: l’impossibilità di comunicare con l’amata Tina.
Si fa forza, con quel piglio cinico ed ironico che contraddistingue la sua immagine pubblica, ma non può fare a meno di vivere momenti di grande sconforto: il clima umido gli procura l’asma, mangia poco e male, e pur amando nuotare (si fa spedire subito dalla sorella costume e cuffia da nuoto), il mare non è per lui. Scrive, sempre alla sorella :“Indifferente mi lasciano invece i piroscafi all’orizzonte e la luna sul mare, che con tutti i suoi chiarori mi fa pensare solo al pesce fritto. Inutile, il mare è una gran vaccata”; e ancora al suo ex professore del liceo, Augusto Monti: “Lei sa come io odi il mare; mi piace nuotare, però mi serviva molto meglio il Po. Ma a parte il nuotare, che del resto è già finito, trovo indegno della gravità di uno spirito contemplativo quel perenne giochetto delle onde sulla riva e quel basso orizzonte odor di pesce”.
Eppure Pavese, uomo solo dinanzi all’inutile mare/attendendo la sera, attendendo il mattino, proprio dal mare riceverà un’intuizione importante. Così scrive nel febbraio del ‘36 ne “Il mestiere di vivere”, uno dei diari più intensi scritti da un poeta, vera e propria cartografia della sua anima:
“Passare ore a rosicchiarmi le unghie, a disperare degli uomini, a disprezzare luce e natura, a temere per paure infantili e pure atroci, è un ritorno ai miei vent’anni. Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha l’altra riva, e arriverò. Mi disgusto ora della vita per poterla assaporare un’altra volta”
In verità, i sette mesi del confino (un provvedimento di grazia arriverà nel marzo del 1936) sono per Pavese operosissimi: legge una mole impressionante di libri in italiano, inglese, francese e tedesco, traduce dal Greco e dal Latino, analizza la tecnica del suo poetare:
“quanto a me, la composizione di una poesia avviene in un modo che – se non me lo mostrasse l’esperienza – mai avrei credutoˮ
Muovendomi intorno ad un’informe situazione suggestiva, mugolo a me stesso un pensiero, incarnato in un ritmo aperto, sempre lo stesso. Le diverse parole e i diversi legamenti colorano la nuova concentrazione musicale individuandola. E il più è fatto. Non resta ora che ritornare su questi due, tre, quattro versi, quasi sempre a questo stato già definitivi e iniziali, e tormentarli, interrogarli, adattare loro svariati sviluppi finché capito su quello giusto. (…) Ho davanti un complesso ritmico, pieno di colori, di passaggi, di scatti e di distensioni – dove i vari momenti di scoperta, di passi avanti ‒ i nuclei, insomma – si scambiano, si illuminano, perennemente attivati dal sangue ritmico che scorre dappertutto. Ci fumo sopra e tento di pensare ad altro, ma sorrido, stimolato dal segreto”
E ancora, Pavese in questi mesi scrive poesie e lavora incessantemente alla pubblicazione di “Lavorare Stanca”, la raccolta di poesie che uscirà per Solaria all’inizio del 1936 nel suo primo nucleo originale di 45 poesie, nonostante la censura, il controllo della corrispondenza e mille altre difficoltà.
“Lo Steddazzu”, scritta proprio nell’inverno del 1935, è il fotogramma di un’insonnia in un’alba uguale a tutte le altre: amara, desolata, inutile.
L'uomo solo si leva
che il mare e ancor buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov'è il letto del mare,
e addolcisce il respiro. Quest'è l'ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.
L'uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.
Non c'è cosa più amara che l'alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c'è cosa più amara
che l'inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall'alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l'uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov'è un letto di neve. La lentezza dell'ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.
Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l'alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L'uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l'ultima stella si spegne nel cielo,
l'uomo adagio prepara la pipa e l'accende.
*-*
15 marzo del '36, destinazione Torino, finalmente la condanna al confino è stata graziata.
Nell’atrio della stazione di Porta Nuova non c’è Tina ad attenderlo, ma alcuni amici e la sorella Maria. Pavese in un battito di ciglia comprende perché l’amata mai gli scrisse durante tutti quei mesi, comprende il silenzio ostinato di Maria e dei suoi amici più cari, a cui continuamente chiedeva notizie di Tina.
Maria non può tacere: Tina si è ufficialmente fidanzata con Enrico Rieser, le nozze saranno a breve. Pavese perde i sensi, si accascia sulla sua valigia; un nuovo squarcio sulla sua anima da cui, fino all’ultimo, sgorgherà incessantemente il fiotto della poesia. “Ho dato poesia agli uomini”, scriverà, consapevole della sua opera come dono di sé.
Poco tempo dopo si congederà dalla vita, proprio di fronte alla stazione di Porta Nuova, in una camera d’albergo. Era il 27 agosto 1950.
Daniela Bianco