La nicchia - numero 12 - L’eredità delle spine. Lettera a Salvatore Toma

Abbandonato su un cumulo di terra venefica, ho accettato la dimenticanza, la moltitudine. Un’opaca agonia, un’asfittica visione, compongono il groviglio delle mie prove ultime. Lineare come un virtuosismo irripetibile è l’ottenebramento, il lento incedere nel collasso. Scrivi dalla morte -mi dicesti- affronta il culmine siderale del precipizio. Riconduci a te l’urlo, l’incanto, i dettami smarriti. Scrivi dalla morte. Liquida tutto.

Salvatore, fratello mio, siamo entrambi figli delle generazioni delle spine, abbiamo cercato, perennemente cercato.

Quel giorno lo sento anch’io vicino, ormai non ho più dubbi, non ho più alibi.

Salvatore caro, entrambi abbiamo conosciuto la malattia, l’esasperazione, l’invasamento, entrambi ci siamo fatti del male con le nostre stesse mani, mani che hanno tradotto la nevrastenia, mani che hanno scavato il pozzo, irradiato oblio.

Lo sai Salvatore, io e te abbiamo in comune la nostra terra, il nostro dimenticatoio, il nostro sud che abbiamo odiato e amato, continua ad essere testimone di battaglie donchisciottesche, continua a sbranarci.

Da quando te ne sei andato, la situazione di noi scrittori è un po’ migliorata, sempre più autori riescono a portare lontano le proprie opere, ma siamo solo all’inizio, abbiamo da fare ancora molto.

Salvatore, io conosco la tua storia, col trascorrere del tempo ho ricostruito tutti i tuoi tentativi, e tutti i rifiuti e le ingiustizie causate da quei bastardi, sono cicatrici che custodisco sulla mia stessa pelle.

Il male che ti causarono, quello stesso male che ti segnò, non lo dimenticherò mai.

Dopo la tua morte, solo in pochissimi provarono a farti giustizia.

Io all’epoca ero solo un ragazzino, un teppistello, ma adesso che sono un uomo, appena si presentano le possibilità, ricordo a tutti il tuo nome e la tua poetica.

Quanto saresti stato felice di vedere le tue poesie pubblicate da Einaudi, quanta forza in più ti avrebbe potuto donare quel riconoscimento, che rivincita avresti avuto.

Salvatore, la tua lotta è la mia, il deserto in cui tento di sopravvivere è ancora intriso del tuo sangue, dei tuoi sogni, e le fiamme in cui brucio sono ancora più ardenti, divampano, incontenibili.

Salvatore, ti faccio una promessa e credimi che io sono abituato a mantenere sempre la parola data.

Ti prometto che prima di essere completamente divorato dalla depressione, prima di portare a termine il mio avvelenamento, proverò a pubblicare al meglio le mie opere.

Una raccolta di poesie intitolata L’apprendistato alla morte è dedicata proprio a te.

Tu osservami che in serbo ho ancora da sparare diverse pallottole d’inchiostro.

Salvatore, entrambi abbiamo lottato, sofferto, entrambi ci siamo scontrati con l’ottusità e la meschinità, entrambi però abbiamo conosciuto la tregua degli abbracci e dei baci delle nostre donne: abbiamo amato e siamo stati amati.

Accanto a me ho anch’io una donna favolosa.

Totò caro, fratello mio, credimi, ne è valsa comunque la pena, perché il meglio di noi si salverà grazie all’amore delle nostre donne.

Marco Vetrugno