C’è una fotografia, celeberrima, che ritrae un giovane Julio Cortázar imberbe con la sigaretta tra le labbra.
Un solco profondo tra gli occhi rivela una specie di sfrontata serietà che non cede al sorriso davanti alla camera fissata con impertinenza.
Difficile sottrarsi al potere di quegli occhi cosi grandi e distanti, all’abbraccio di uno sguardo così ampio e profondo da poter contenere il mondo.
Julio Cortázar, argentino naturalizzato francese, era un uomo fuori dal comune. Politica e letteratura si intrecciano indissolubilmente in lui: lasciata l’Argentina nel 1951 per ragioni politiche (piuttosto che assoggettarsi al regime peronista scelse l’esilio volontario) non distolse mai, per tutta la sua vita, lo sguardo dalla sua terra, partecipando con passione al dibattito civile, sociale e culturale dei paesi dell’America Latina.
La presa di coscienza della realtà del suo tempo modificò il tiro della sua poetica: così scriveva nel 1967 a Roberto Fernandez Retamar (poeta e saggista cubano):
“Non scriverò mai espressamente per nessuno, maggioranze o minoranze, e la reazione che susciteranno i miei libri sarà sempre fenomeno accessorio ed estraneo al mio compito; e tuttavia oggi so che scrivo per, che c’è l’intenzionalità di rivolgersi, almeno nella speranza, ad un lettore in cui risieda il seme dell’uomo futuro(…) Se non fosse sufficientemente chiaro, lascia che completi quanto detto con un esempio: vent’anni fa vedevo in Paul Valéry il più alto esponente della letteratura occidentale. Oggi continuo ad ammirare il grande poeta e saggista, ma ormai non rappresenta più per me quell’ideale. Non può rappresentarlo chi per tutta una vita consacrata alla meditazione e alla creazione ha ignorato sovranamente (e non solo nei suoi scritti) i drammi della condizione umana che in quegli stessi anni si facevano strada nell’opera di un André Malraux e, in modo lacerante e contraddittorio, in un André Gide”
Il 9 ottobre 1967 Che Guevara fu ucciso in Bolivia e Cortázar si trovava ad Algeri per lavoro. Una ventina di giorni dopo, rientrato a Parigi, scrive all’amico Retamar, che gli aveva chiesto un testo per la rivista cubana Casa de las Américas:
“Voglio dirti questo: non so scrivere quando qualcosa mi ferisce a tal punto, non sono, non sarò mai uno scrittore professionista pronto a produrre ciò che ci si aspetta da lui, quello che gli chiedono o quello che lui stesso si chiede disperatamente. La verità è che la scrittura, oggi e di fronte a questo, sembra la più banale delle arti, una specie di rifugio, di dissimulazione quasi, la sostituzione dell’insostituibile. Il Che è morto e a me non resta altro che il silenzio, chissà fino a quando. Se ti ho mandato quel testo è stato perché eri tu a chiedermelo, e perché so quanto amavi il Che e quello che significava per te (…) Ed è per te anche questa, l’unica cosa che sono stato capace di scrivere in queste prime ore, che è nata come una poesia e voglio che tu la abbia e la possa conservare per quando saremo insieme.
CHE
Io avevo un fratello.
Non ci siamo mai visti
Ma non importava.
Io avevo un fratello
Che andava per i monti
mentre io dormivo.
L’ho amato a mio modo,
ho preso la sua voce
libera come l’acqua,
ho camminato a tratti
vicino alla sua ombra.
Non ci siamo mai visti
Ma non importava,
mio fratello sveglio
mentre io dormivo,
mio fratello che mi mostrava
al di là della notte
la sua stella eletta.
Il cuore indomito di Cortázar sanguina in ciascuna delle numerosissime lettere torrenziali, ironiche e appassionate ai suoi amici per scrivere di sé, di letteratura ma soprattutto di libertà e del coraggio di parlare sempre, nonostante le intimidazioni che in maniera più o meno velata lo terranno a distanza dalla sua terra. Il suo è l’impegno civile di un intellettuale che non rinuncia al primato della parola e della libertà di coscienza e di critica. Lettere ardenti, eloquenti e raffinate come il più sontuoso dei broccati, trapunte di guizzi e riferimenti ai suoi poeti del cuore, come quando nel '72 scriverà che “in una delle sue magnifiche lettere John Keats dice ad un amico: Bisogna fare profezie; si arrangeranno poi loro a compiersi”.
Nel 1973, prima di partire per un viaggio di tre mesi in America Latina e presentare il suo Libre de Manuel,( i cui diritti d’autore saranno devoluti in favore dei prigionieri politici), Cortázar scriverà all’amico Saul Yurkievich:
“Visto che non si sa mai, ti prego in caso di bisogno di avvalerti dell’autorizzazione che ti dà questa lettera. In uno dei placard del salotto del mio appartamento (sotto il ripiano con i dischi di jazz) troverai montagne di carte. Ti prego di disporne come meglio credi. So che Max Brod non dà mai al fuoco le carte che Kafka gli chiede di bruciare e nemmeno io brucerei delle tue carte se me le lasciassi. Ma conosco la tua sensibilità al momento di scegliere e valutare. Ottimista come sempre, confido che alla fine di aprile bruceremo una sola cosa: queste righe, mentre ci beviamo qualcosa insieme”
Ottimista sempre, anche quando nel 1978 scriverà:
”Non credo nei modelli ma credo negli esempi; non credo nelle cristallizzazioni sociali ma credo in una dialettica rivoluzionaria verso la libertà e la felicità dell’uomo. Per me la rivoluzione cubana non sarà mai la montagna ma il mare, che si rinnova sempre. Infinite, pietrificate, le montagne di tutto il resto dell’America Latina vedranno alzarsi a suo tempo l’ondata del mare umano, come io l’ho già vista a Cuba il giorno in cui il contenuto di queste due parole quasi sempre inconciliabili, speranza e realtà, si è unito in un solo presente.”
E’ del 1981 una splendida lettera alla madre, in occasione della decisione del presidente francese Mitterrand di concedergli la cittadinanza francese, negatagli in passato per due volte:
“Siamo in esilio per un motivo (sai bene che io non ero un esule ed andavo e venivo ogni volta che volevo, ma che da ormai sette anni dovrei essere più che idiota per provare a metter piede in una terra dove tanti amici e compagni sono scomparsi per sempre, sebbene pochi lo sappiano ed i giornali non dicano una parola. Per farla breve, voglio che tu sappia che non avrò più un passaporto argentino e ne avrò uno francese ma che questo non mi cambia affatto: continuo a scrivere in spagnolo, continuo a lottare perché tutti i nostri paesi latinoamericani siano un giorno più liberi e più felici, e la mia nuova condizione civile è invece infinitamente utile per la mia vita in Francia, i miei viaggi per il mondo e la mia tranquillità personale.”
Argentino sempre, e per sempre Cortázar affiderà il suo canto d’amore per l’Argentina all’amica Alba de Lazeano, alla quale, nel 1982 scriverà:
“Per voi, perché possiate rincontrare le persone care. Con tutta la speranza e l’affetto del tuo amico Julio
GARDEL 1982
Il giorno in cui mi amerai, Argentina,
il giorno in cui mi amerai
addolcirà il suo canto l’usignolo
fiorirà la vita[1]
non esisterà il dolore.
Tornerò quel giorno,
e come oggi ti dirò quanto ti amo
e cercherò il tuo viso nascosto
in tanta tristezza che sorride,
per darti gli stessi schiaffi
che ti ho dato da lontano, piangendo.
Troverò il tuo volto
Che mi guarda ormai in salvo
E bacerò quella bocca che mi aspetta
Oltre l’orrore e la paura,
quando tu stessa nascerai come voglio,
che mi ami amor mio, la vera te
grande madre di te stessa
Tornerò per amarti
Così e solo così, e in pieno giorno”
Daniela Bianco
[1] Tutte le lettere di Julio Cortazar sono tratte da Così violentemente dolce - lettere politiche, a cura di Giulia Zavagna, Edizioni Sur 2015