La nicchia - numero 57 - …Una poetessa totalmente poetessa, in ascolto di tutte le cose …
…io vivo della Poesia come le vene
vivono del sangue…
“Oh, tu bene mi pesi
l’anima, Poesia:
tu sai se io manco e mi perdo,
tu che allora ti neghi
e taci.
Poesia che ti doni soltanto
a chi con
occhi di pianto
si cerca –
Oh rifammi tu degna di te,
Poesia che mi guardi.”
Voce leggera e significati taglienti, stile essenziale ed evocativo, tematiche intrise di inquietudine esistenziale sono le caratteristiche dell’opera letteraria di una delle grandi poetesse del Novecento italiano. Antonia Pozzi nacque a Milano il 13 febbraio 1912, in una famiglia borghese della città. Fin da giovane dimostrò un talento poetico precoce, scrivendo le sue prime liriche già da adolescente. Studiò all’Accademia di Brera, dedicandosi alla pittura e alla scultura oltre che alla poesia. La sua produzione artistica fu fortemente influenzata dalle avanguardie del primo Novecento, come il futurismo e il cubismo. Nel 1933 iniziò a frequentare il gruppo di intellettuali e artisti milanesi riuniti attorno alla rivista “L’Anello della Metropolitana”, su cui pubblicò alcune sue poesie di stampo ermetico. La sua produzione poetica negli anni Trenta fu ricca e intensa. Purtroppo Antonia Pozzi ebbe una vita breve e travagliata. Soffrì di disturbi psichici e depressione che la portarono a togliersi la vita, il 4 dicembre 1938, a soli ventisei anni, nel prato antistante l’abbazia di Chiaravalle, imbiancato dalla neve. La famiglia negò la circostanza «scandalosa» del suicidio, attribuendo la morte a polmonite. Le sue opere poetiche complete furono pubblicate postume nel 1942, rivelando la profondità e l’originalità della sua voce lirica.
“Giuncheto lieve biondo
come un campo di spighe
presso il lago celeste
e le case di un’isola lontana
color di vela
pronte a salpare –
Desiderio di cose leggere
nel cuore che pesa
come pietra
dentro una barca –
Ma giungerà una sera
a queste rive
l’anima liberata:
senza piegare i giunchi
senza muovere l’acqua o l’aria
salperà – con le case
dell’isola lontana,
per un’alta scogliera
di stelle –”
(Desiderio di cose leggere, 1934)
Le poesie di Antonia Pozzi catturano per la gentilezza con cui esprimono quello che lei stessa ha definito, nella sua lettera di suicidio, una “disperazione mortale”. La sua estrema sensibilità diventa tra le sue righe l’accezione più bella e, al tempo stesso, la sua dannazione. Gli scenari naturali che tanto amava si accostano ai suoi sentimenti cupi e al suo bisogno di alleviarli.
“Io penso che il tuo modo di sorridere
è più dolce del sole
su questo vaso di fiori
già un poco
appassiti –
penso che forse è buono
che cadano da me
tutti gli alberi –
ch’io sia un piazzale bianco deserto
alla tua voce – che forse
disegna i viali
per il nuovo
giardino”.
(Non so, 1933)
“Tristezza di queste mie mani
troppo pesanti
per non aprire piaghe,
troppo leggere
per lasciare un’impronta –
tristezza di questa mia bocca
che dice le stesse
parole tue
– altre cose intendendo –
e questo è il modo
della più disperata
lontananza”.
(Sfiducia, 1933)
“Ricordo che, quand’ero nella casa
della mia mamma, in mezzo alla pianura,
avevo una finestra che guardava
sui prati; in fondo, l’argine boscoso
nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,
c’era una striscia scura di colline.
Io allora non avevo visto il mare
che una sol volta, ma ne conservavo
un’aspra nostalgia da innamorata.
Verso sera fissavo l’orizzonte;
socchiudevo un po’ gli occhi; accarezzavo
i contorni e i colori tra le ciglia:
e la striscia dei colli si spianava,
tremula, azzurra: a me pareva il mare
e mi piaceva più del mare vero”.
(Amore di lontananza, 1929)
“Quando dal mio buio traboccherai
di schianto
in una cascata
di sangue –
navigherò con una rossa vela
per orridi silenzi
ai crateri
della luce promessa”.
(Amor fati, 1937)
Dora Laera